MARIA ASSUNTA IN CIELO
La parabola della sua breve vita non poteva che concludersi
così. Quel figlio che aveva accolto senza riserve, che aveva portato in grembo
e che amò più della sua stessa vita, tenne spalancati per lei i cieli che aveva
da poco attraversato. Bello. Bello e stupendamente umano. Più forte della morte
è l’ amore, le grandi acque non lo possono spegnere. Maria gli era stata
accanto sempre. Ne aveva condiviso gioie e dolori; sofferenze e incomprensioni;
preghiera e doni dello Spirito. Con lui aveva imparato a scrutare il cuore e a
interrogare l’ anima perché in tutto fosse glorificato Iddio. Quando venne la
sua ora, lungo la via dolorosa, gli cammina accanto, gli asciuga il volto coi
suoi capelli, gli sussurra parole di conforto, sostiene la sua fede: « Figlio! Figlio
del cuore mio. Avanza, non temere, pur se non lo senti il Padre ti sta accanto
… Vengo con te sul monte. La morte più non temo. Figlio che facesti il bene …
Appoggiati alla spalla della tua mamma bella …». Lui, il Signore della vita e
della morte, non parla. Non ce la fa. Barcolla. Inciampa. Cade nella polvere
che gli soffoca la gola. Lui, nel suo cuore, spera che vada via, che non giunga
al Golgota. In quegli occhi limpidissimi sente di affogare. Il dolore è al
limite di ogni sopportazione, sapere che anche la sua mamma lo sta soffrendo
glielo rende disumano. Lei, invece, resta. Ferma. Immobile. Con il cuore a
lutto e gli occhi senza lacrime. Chiama a raccolta le sue forze, tenta di
apparire forte, sicura, determinata. Non va via nemmeno quando glielo metteranno
in croce, quel figlio unico e immensamente amato. Momenti di strazio indicibili
che nessuno potrà raccontare mai. Solo le mamme che, anche ai nostri giorni,
hanno visto i loro figli crocifissi, decapitati, sepolti vivi possono
comprendere. Fu forte fino al momento in cui suo figlio ebbe bisogno della sua
forza. Poi crollò. Cadde esausta appena dalla croce Gesù emise l’ ultimo
respiro. Nel silenzio pesante di quella sera che non avrà uguali nella storia,
asciugò le sue mani bagnate dal sangue di suo figlio e ripose il panno prezioso
in un cassetto. Poi fece forza ai discepoli impauriti, avviliti, scoraggiati.
Con lei c’erano le amiche di sempre e Giovanni, il ragazzino. Il tempo sembrò
fermarsi quella notte. L’ intima certezza che qualcosa stava per accadere,
però, non la lasciò nemmeno un istante solo. Che cosa non avrebbe saputo dire.
Si immerse nella preghiera. A vederla, muta, immobile, sembrava essersi
assopita. Suo figlio era morto. Ricordò le parole che il vecchio Simeone le
rivolse tanti anni prima: « E anche a te una spada trafiggerà l’ anima …». Non
le aveva mai dimenticate anche se mai le aveva comprese appieno. Quel momento
era venuto. Gemeva, soffriva, sanguinava, eppure, stranamente, si sentiva
invasa da una dolcezza senza fine. Una dolcezza misteriosa e vera. Avvertiva un
soffio leggero che le sfiorava i capelli e le donava forza. Sprofondò nella
contemplazione dell’ Eterno Padre e del Figlio. Di quel figlio del Padre che
era anche figlio suo. Tutta la sua vita era avvolta nel mistero. Di quel
mistero viveva, in quel mistero riposava. E adesso? Che cosa sarebbe accaduto?
Quella notte non dormì, Maria. Con gli spalancati e stanchi continuava a
pregare. Poi. Successe tutto all’ improvviso. C’era scompiglio la mattina di
quel giorno dopo il sabato. Le voci concitate delle amiche si accavallavano nel
tentare di raccontare l’ incredibile scoperta. Grida di gioia, di stupore. A
tratti di paura. Recatesi al giardino alle prime ore dell’ alba, avevano
trovato il sepolcro aperto e vuoto. Gesù non c’era. Che cosa era accaduto?
Qualcuno ne aveva rubato il corpo? Maria ebbe l’ intima certezza che suo figlio
era risorto. Alla velocità del lampo le riaffiorarono alla mente le sue parole,
ascoltate e meditate tante volte. La morte non poteva tenere prigioniero il
Signore della vita. Credette che stesse per scoppiarle il cuore. Allora
cominciò a cantare. Cantava e danzava. Pregava e cantava. Danzava e lodava. E
quel figlio che aveva amato più della sua stessa vita l’ avvolse in un
abbraccio e la portò con sé. Fu assunta in cielo in anima e corpo. Come e
quando avvenne a nessuno è dato sapere con certezza. Ma poco importa. Gesù è
risorto, Maria è assunta in cielo. Ancora e per sempre insieme. E noi con loro.
E sono nostri, ci appartengono. Ci proteggono. Ci amano. Madre di Dio e madre
nostra, da lassù non ha mai smesso di intercedere per questa nostra bella e
tormentata umanità che lotta contro le insidie degli egoismi che ci avvelenano
e dell’ orgoglio che ci gonfia. A te, Madre assunta in cielo, affidiamo gli
uomini che in tante parti del mondo soffrono e muoiono per le ingiustizie e le
ingordigie di altri uomini, loro fratelli in umanità. In modo particolare ti
affidiamo i bambini e le donne più indifesi e fragili. Mettiamo nel tuo cuore
papa Francesco, la santa Chiesa, l’ umanità intera. Ti chiediamo il dono della
pace. Benedetta sei tu, Maria, fra tutte le donne e benedetto il frutto del tuo
grembo: Gesù.
Padre Maurizio Patriciello
Ave Maria
COME MARIA
A volte basta un raggio di sole
Una notte ho fatto un sogno splendido. Vidi una strada lunga,
una strada che si snodava dalla terra e saliva su nell'aria, fino a perdersi
tra le nuvole, diretta in cielo. Ma non era una strada comoda, anzi era una
strada piena di ostacoli, cosparsa di chiodi arrugginiti, pietre taglienti e
appuntite, pezzi di vetro. La gente camminava su quella strada a piedi scalzi.
I chiodi si conficcavano nella carne, molti avevano i piedi sanguinanti. Le
persone però non desistevano: volevano arrivare in cielo. Ma ogni passo costava
sofferenza e il cammino era lento e penoso. Ma poi, nel mio sogno, vidi Gesù
che avanzava. Era anche lui a piedi scalzi. Camminava lentamente, ma in modo
risoluto. E neppure una volta si ferì i piedi.
Gesù saliva e saliva. Finalmente giunse al cielo e là si sedette
su un grande trono dorato. Guardava in giù, verso quelli che si sforzavano di
salire. Con lo sguardo e i gesti li incoraggiava. Subito dopo di lui, avanzava
Maria, la sua mamma. Maria camminava ancora più veloce di Gesù.
Sapete perché? Metteva i suoi piedi nelle impronte lasciate da
Gesù. Così arrivò presto accanto a suo Figlio, che la fece sedere su una grande
poltrona alla sua destra.
Anche Maria si mise ad incoraggiare quelli che stavano salendo e
invitava anche loro a camminare nelle orme lasciate da Gesù, come aveva fatto
lei.
Gli uomini più saggi facevano proprio così e procedevano spediti
verso il cielo. Gli altri si lamentavano per le ferite, si fermavano spesso,
qualche volta desistevano del tutto e si accasciavano sul bordo della strada
sopraffatti dalla tristezza.
Una mattina un professore di cardiologia condusse gli alunni al
laboratorio di anatomia umana dell'Università. Stavano osservando alcuni
organi, quando notarono un cuore smisuratamente grande. Il professore chiese ai
ragazzi se sapevano dire a chi fosse appartenuto, intendendo quale malattia
avesse causato la morte di quella persona.
"Io lo so" disse un ragazzo, in tono molto serio.
"Era il cuore di una madre".
(racconto
Bruno
Ferrero)
Ave Maria
Dopo quel fatto della ragazza madre uccisa nell’ accampamento
tuareg perché colta in adulterio, i miei rapporti con Maria di Nazareth
divennero molto più intimi. Fu come se improvvisamente mi diventasse sorella.
Non ero stato abituato a vederla così vicina, così umana, così fragile. Il culto
aveva sviluppato, sì, un certo tipo di rapporto soprannaturale, ma aveva
soffocato la sua voce di donna, di creatura, di sorella, di maestra che accanto
a me mi poteva ancora dire qualcosa. Sì, lo devo confessare con umiltà, quando
riuscii ad accostare quella tragedia, consumata nel silenzio di una sperduta
vallata dell’Hoggar, al Vangelo di Luca compresi in pieno il coraggio di Maria
nell’accettare la richiesta dell’ Angelo e il disegno di Dio su di Lei. Doveva
accettare il ruolo di ragazza madre. Chi avrebbe creduto a L Chi avrebbe
accettato il discorso di una ragazzetta che in casa viene a dirmi: “Sai...
questo bimbo che ho nel ventre è il figlio dell’Altissimo!”. A casa mia avrebbe
per lo meno ricevuto uno schiaffo da mio padre, ed eravamo in Piemonte; a casa
di qualche famiglia più verso il sud si sarebbe sentita dire: “Vattene e non
vogliamo più vederti perché hai disonorato la famiglia”. In qualche casa araba
o scita o ebrea dei tempi passati... sarebbe corso il sangue. aria, nella fede,
ebbe il coraggio di confidare nel Dio dell’impossibile e di lasciare a Lui la
soluzione dei suoi problemi: la sua era fede pura. u una scoperta dolcissima la
mia, fatta in un ambiente stupendo come il deserto e... quel deserto! Non
dimentichiamolo: la Bibbia fu scritta proprio in quel terreno tra il deserto e
la steppa dove vivono le carovane, brucano gli asini e le pecore e gli uomini
sanno interrogare il cielo perché è l’unica speranza di vita. Ed anche io ero
là. Quando la sera preparavo l’accampamento sul bordo della pista ed accendevo
il fuoco per far cuocere il pane e far bollire il tè, Maria mi veniva vicina.
Bastava che tirassi fuori il Rosario che mi ero costruito con grani di legno
raccolti nell’oued di Issakarassem e che tenevo sempre in tasca, perché sentissi
la Sua presenza accanto al fuoco. Il deserto è tutta una chiesa con il cielo
stellato come volta e la sabbia fine e calda come stuoia su cui sedersi a
pregare. Che dolcezza perdere la nozione del tempo e dello spazio e vivere la
comunione coi santi come dolce realtà. Sono venuto nel deserto proprio per
questo. Volevo rompere la frontiera tra il visibile e l’invisibile, tra il
Cielo e la Terra e nella fede sovente ci sono riuscito. Che pace andare al di
là delle cose! Vivere come se il Vangelo fosse scritto ora, vissuto ora. Vedere
il segno delle cose di Dio rompersi per mostrarti l’invisibile Sua presenza, la
Sua realtà divina. Poter parlare con i santi. Fare esperienza della Presenza
Eucaristica sotto la tenda trasformata in Tabernacolo. Una sera tentai il
discorso con Maria. Mi era così facile! Le volevo così bene!
Maria, dimmi come è andata? Raccontalo a me come l’hai
raccontato a Luca l’evangelista. Tu lo sai, mi disse, perché conosci il
Vangelo. È stato tutto molto bello!
“lo vivevo a Nazareth in Galilea e la mia vita era la vita di
tutte le ragazze del popolo: lavoro, preghiera, povertà, molta povertà, gioia
di vivere e soprattutto speranza nelle sorti di Israele. Abitavo con Anna, mia
madre, in una casetta molto semplice che aveva un cortile davanti ed un gran
muro di cinta fatto apposta perché noi donne ci sentissimo in libertà ed
intimità. Lì sostavo sovente per lavorare e pregare. In me l’una e l’altra cosa
si mescolavano ed ero piena di pace e di gioia. Quel giorno ero sola nel
piccolo cortile e una gran luce mi avvolgeva. Pregavo, seduta su uno sgabello.
Tenevo gli occhi socchiusi e sentivo una gioia invadermi tutta. La luce
aumentava ed io incominciai a socchiudere le palpebre che avevo chiuso per non
restare abbacinata. Ero contenta di lasciarmi riempire di quella luce. Mi
pareva il segno della presenza di Dio che mi avvolgeva come un manto. Ad un
tratto quella luce prese l'aspetto di un Angelo. Ho sempre pensato agli Angeli
così come lo vidi in quel momento. Tu sai come è la questione della fede. Non
sai mai se la visione è dentro o fuori. È certamente dentro perché se fosse
solo fuori potresti dubitare come fosse una illusione. Ma dentro l’illusione
non c’è, è così, sai che è così: ne è testimone Dio. lo stavo molto ferma per
paura che tutto scomparisse. E invece l’Angelo parlò. Anche qui: non sai mai se
la voce la senti nell’orecchio o più in profondo. Certamente in profondo perché
se fosse solo nell’orecchio potresti illuderti. La voce la senti là dove lo
stesso Dio è il testimone”.
E che ti disse?
“Mi disse: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con Te”.
E Tu che provasti?
“È evidente che ne fui turbata. Era come se fossi visitata da
cose troppo grandi per me e per la mia dimensione così piccola. Tu puoi pensare
alle cose di Dio con immenso desiderio ma quando ti toccano non puoi non
spaventarti. Difatti mi disse subito: “Non temere, Maria”. Mi feci coraggio
perché la stessa frase l’avevo sentita alla Sinagoga quando si leggeva la
storia di Abramo. !Non temere, Abramo. lo sono il tuo scudo”. Poi l’Angelo mi
diede l’annuncio della maternità con poche parole ma così chiare che avevo
l’impressione mi stessero nascendo dentro. Non mi era mai capitato di sentire
parole come fossero avvenimenti”.
Dimmi, Maria, sei stata colta di sorpresa? Non avevi mai pensato
prima che Tu... proprio Tu...
”Oh sì! Ci avevo pensato. Noi ragazze ebree non pensavamo ad
altro. Sentivamo che i tempi erano quelli e quando pregavamo nella Sinagoga
l’aria era satura di attesa del Messia”.
Che hai capito quando l’Angelo ti disse che eri Tu la scelta e
che il Messia sarebbe nato da Te?
“Capii esattamente cosa voleva dirmi, e rimasi soltanto stupita
della straordinarietà della cosa. Come era possibile se io ero vergine?
L’Angelo mi spiegò le cose e mi fu facile accettarle perché mi sentivo immersa
in Dio come in quella luce vivissima del mezzogiorno. Confusamente capii anche
che pasticci ce ne sarebbero stati, che non sarei riuscita a spiegarmi con mia
madre, specialmente col mio fidanzato Giuseppe, ma non avrei potuto fermarmi
tanta era forte la presa di Dio su di me e tanta era la certezza che mi veniva
dalle parole dell’Angelo: “Nulla è impossibile a Dio”. Adagio, adagio la luce
diminuì e non vidi più l’Angelo. Vidi mia madre Anna attraversare il cortile e
mi venne voglia di parlarle, ma non ne fui capace perché non trovai le parole
adatte. Capii subito che non c’erano parole con cui potevo spiegare le cose.
Così nei giorni che seguirono, anzi, più andavo avanti e più diventavo
silenziosa. Fu più difficile il discorso con Giuseppe, mio fidanzato. Tu sai
come avvenivano le cose nelle nostre tribù. La sposa veniva promessa molto
presto. Era come un patto tra famiglie. Ma essendo così giovane la futura sposa
continuava a vivere in famiglia in attesa della maturità. Allora con grande
festa, di notte, si compiva lo sposalizio e lo sposo accompagnato dai suoi
amici veniva con tante luci e canti e gioia a prendere la sua sposa ed a
condurla a casa. Da quel momento si era veramente sposati. Quando l’Angelo mi
apparve per annunciarmi la maternità, io ero ancora in casa. Ero stata promessa
a Giuseppe ma non ero ancora andata ad abitare con lui. Bastarono pochi mesi
perché tutto divenisse complicato agli occhi degli uomini. lo non potevo
nascondere la mia maternità e il mio ventre mi denunciava. Capii allora cos’
era la fede oscura, dolorosa. Come potevo spiegarmi con mia madre? Come potevo
discutere col mio fidanzato Giuseppe? Vissi tempi veramente dolorosi e l’unico
conforto mi veniva nel ripetere: “Tutto è possibile a Dio”. Toccava a Lui
spiegarsi ed io avevo tanta confidenza. Ma ciò non toglieva la mia sofferenza
che in certi momenti mi straziava l’anima. Come potevo trovare le parole per
dire che quel bimbo che portavo in seno era il figlio dell’Altissimo? Intanto
non osavo più uscire di casa ed una volta vidi una vicina guardarmi da sopra il
muro del cortile con evidente attenzione puritana. Ci furono dei momenti
terribili ed io tremai al pensiero di essere denunziata come adultera. Ci
voleva così poco. Bastava che Giuseppe andasse alla Sinagoga a spiegare la cosa
e non gli sarebbero mancati gli zelanti che l’avrebbero seguito con le pietre
per lapidarmi. Non era la prima volta che a Nazareth veniva uccisa un’adultera.
Ma è vero: “Dio può tutto”. E si spiegò Lui. Si spiegò con Giuseppe per primo
che mi disse di avere avuto un sogno veramente straordinario e che non aveva
perduto la confidenza in me e che mi avrebbe sposata lo stesso. Che gioia
quando me lo disse! Ma che paura avevo provato! Che oscurità! Sì, il fatto mi
aveva spiegato che la fede è di quella natura e che dobbiamo abituarci a vivere
nell’oscurità. Ci fu anche un fatto straordinario che alleviò le mie pene in
quei mesi. Tu sai che l’Angelo mi aveva dato un segno per aiutare la mia
debolezza. Mi aveva detto che mia cugina Elisabetta era al sesto mese di una
maternità straordinaria perché tutti noi della famiglia sapevamo che era
sterile. Dovevo andare a trovarla in Giudea ad Ain-Karim dove abitava. Non mi
feci pregare a partire. L’idea venne a mia madre perché era preoccupata che la
gente del paese mi vedesse con quel ventre grosso e non voleva dicerie. Partii
di notte, ma così contenta di allontanarmi da Nazareth dove c’erano troppi
occhi indiscreti e non potevo raccontare a tutti le mie faccende. Trovai mia
cugina già vicina al parto e così felice, poverina! Aveva aspettato tanto un
figlio! Il Signore si era spiegato anche perché quando giunsi fu come se
sapesse tutto! Tutto! Tutto! Si mise a cantare per la gioia ed io cantavo con
lei. Sembravamo due pazze, ma pazze di amore. E c’era un terzo che sembrava
impazzito di gioia. Era il piccolino, il futuro Giovanni che danzava nel ventre
di Elisabetta come per fare festa a Gesù che era nel mio. Furono giorni
indimenticabili. Ma Elisabetta, che se ne intendeva di fede e di fede oscura e
che aveva tanto sofferto nella vita, mi disse una cosa che mi fece piacere e
che fu Come il premio a tutta la mia solitudine di quei mesi. “Beata te che hai
creduto”. E me lo ripeteva tutte le volte che mi incontrava e mi toccava il
ventre, come per toccare Gesù, il nuovo Mosè che stava per venire al mondo”.
Il fuoco con cui avevo cotto il pane si stava spegnendo. La
notte era già alta e mi sentii solo. La presenza di Maria ora era nel Rosario
che avevo in mano e che mi invitava a pregare. Sentivo freddo e mi avvolsi nel
“bournous” (mantello arabo di lana di pecora) che avevo con me. L’oscurità
divenne totale ma non avevo nessuna voglia di addormentarmi. Volevo gustare la
meditazione che Maria mi aveva regalata. Soprattutto volevo entrare con
dolcezza e forza nel mistero della fede, la vera, quella dolorosa, oscura,
arida. Oh no! Non è facile credere, è più facile ragionare. Non è facile
accettare il mistero che ti supera sempre e che ti allarga sempre i limiti
della tua povertà. Povera Maria! Dover credere che quel bimbo che portava in
seno era figlio dell’Altissimo. Sì, è stato semplice concepirlo nella carne,
estremamente più impegnativo concepirlo nella fede! Quale cammino! Eppure non
ne esiste un altro. Nori c’è altra scelta. Vuoi Tu, Maria, spaventata dal
credere, tornare indietro, pensare che non è vero, che è inutile tentare, che è
una illusione quella di un Dio che si fa uomo, che non c’è Messia di salvezza,
che tutto è un caos, che sul mondo domina l’irrazionale, che sarà la morte a
vincere sul traguardo e non la vita? No! Se credere è difficile, non credere è
morte certa. Se sperare contro ogni speranza è eroico, il non sperare è
angoscia mortale. Se amare ti costa il sangue, non amare è inferno. Credo,
Signore! Credo perché voglio vivere. Credo perché voglio salvare qualcuno che
affoga: il mio popolo. Credo perché quella del credere è l’unica risposta degna
di te che sei il Trascendente, l’Infinito, il Creatore, la Salvezza, la Vita,
la Luce, l’Amore, il Tutto. Che cosa strana per non dire meravigliosa: appena
ho detto con tutte le viscere la parola “credo”, ho visto la notte farsi
chiara. Ora chiudo gli occhi perché è proprio Lei, la notte che mi abbaglia con
la Sua luce al di là di ogni luce. Sì, nulla è più chiaro di questa notte
oscura, nulla è più visibile dell’invisibile Dio, nulla è più vicino di questo
infinitamente lontano, nulla è più piccolo di questo infinito Iddio. Difatti è
riuscito a stare nel Tuo piccolo seno di donna, Maria, e Tu l’hai potuto scaldare
col Tuo corpicino bello. Maria! Sorella mia! Beata te che hai creduto, ti dico
stasera con entusiasmo, come te lo disse tua cugina Elisabetta, in quel vespro
caldo ad AinKarim.
fratel Carlo Carretto
Gastone il centurione
Gastone era un centurione e ormai da 30 anni si trovava alle
dipendenze di Pilato. Di condannati ne aveva visti tanti, ma nessuno come
questo Galileo. “Con tutte le torture che gli sono state fatte dovrebbe essere
già morto... e invece mantiene sempre la calma, pur tra inaudite sofferenze...
e poi... mi ricorda qualcuno...”. Intanto Gesù fu caricato della croce e il
triste corteo si avviò verso il Calvario. Ad un tratto lungo la strada apparve
una Donna. “È la madre del condannato”, sussurrò qualcuno. Gastone si voltò ed
ebbe un sussulto: come un lampo il passato gli tornò davanti agli occhi. Era un
giovane soldato, appena giunto dall’Italia, quando venne mandato con dei
colleghi in Galilea a causa di una sommossa. Come gli altri soldati era un
prepotente: entrava nei villaggi e saccheggiava le case senza aver rispetto per
nessuno. Un giorno la sua guarnigione rimase senza viveri e i soldati decisero
di prendere con la violenza un po’ di provviste. Gridando e schiamazzando
misero in subbuglio il paesino di Nazareth: le urla delle donne e il pianto dei
bambini, invece di impietosirli, li facevano divertire. Mancava ancora una
casetta: Gastone fu il primo ad entrare; ma si fermò di colpo. All’interno non
c’era niente di strano: solo una donna con un bambino; eppure l’atmosfera era
talmente soprannaturale che i soldati entrando rimanevano ammutoliti. Gastone
una volta aveva visto da vicino Cesare, eppure da quei due si irradiava una
maestà ben superiore a quella dell’imperatore. Con una voce dolcissima e molto
calma la Signora domandò: “Avete bisogno di qualcosa?”. I soldati si guardavano
imbarazzati. Gastone si fece coraggio e rispose: “Avremmo bisogno di un po’ di
cibo, ma non vorremmo essere di disturbo...”. La Donna si rivolse al bambino:
“Gesù, vai a prendere un po’ di provviste”. Il bambino subito si alzò e corse
in dispensa. Quando tornò aiutò la Mamma a preparare tanti fagottini quanti
erano i soldati. Infine, la Donna distribuì le provviste a ciascuno di loro.
Pur essendo molto giovane, tutti ebbero l’impressione di trovarsi di fronte
alla propria madre. Gastone non aveva più dimenticato quello sguardo e adesso
era sicuro di riconoscerlo in quella Donna. “Il condannato dev’essere quel
bambino!”. Era la prima volta che provava compassione per un condannato. Un
pensiero gli si affacciò alla mente: “Quest’uomo ha affermato di essere Figlio
di Dio... E se fosse vero?”. La Donna intanto seguiva il Figlio con una
compostezza e una dignità che ferivano profondamente il cuore del buon
centurione. Arrivarono sul Calvario e dopo tre ore di tremenda agonia, alla
morte di Gesù Gastone cadde in ginocchio ed esclamò: “Costui era veramente
Figlio di Dio!”, e così dicendo gli tornarono alla mente le Sue ultime parole:
“Donna, ecco tuo Figlio”: solo allora capì che si trattava di una Maternità
universale ed ebbe un sussulto: era proprio questa l’impressione che aveva
avuto quando aveva visto la Donna per la prima volta.
(Enrico
Salomi, mensile Il Timone)
La storia di un uomo che voleva dannarsi ma non aveva fatto i
conti con la Madonna
C’era
anticamente un uomo il quale si voleva dannare. Non dico che si fosse proprio
proposto di andare all’inferno: dico che si era messo per una strada da finire
in quel brutto posto. Da buon cristiano qual era stato in principio, si era a
poco a poco voltato al male, e, facendo un giorno peggio dell’altro, dì
cristiano non aveva ormai più che il Battesimo. Niente più Messe (figurarsi le
funzioni), né per Pasqua né per Natale, niente più prediche né Vangeli, niente
più Confessioni né Comunioni, niente più Vigilie né Quaresime né Quattro Tempora,
niente più devozioni, niente più preghiere, e al posto di tutto questo tutti e
sette i vizi del Catechismo... Dite se non è questa la strada che mena alla
dannazione. Vero è che per dannarsi bisogna fare i conti con la Madonna, vale a
dire con una mamma. La mamma! Io mi ricordo di quando ero piccino e, qualche
volta, per un capriccio, per rabbia che essa mi avesse tirato via da un
pericolo, levato di mano un vetro o un coltello, raccattavo un sasso o un
bacchetto e facevo l’atto di andarle contro per picchiarla. Nel muovermi
inciampicavo, andavo in terra, piangevo, e mamma lesta a rizzarmi, pigliarmi in
collo, baciarmi, picchiare e chiamare brutto, cattivo, il sasso o il bacchetto
che mi aveva fatto cascare, che aveva fatto cascare il suo bambino tanto
buono... La Madonna è una mamma. L’unica cosa di cui non si fosse proprio del
tutto scordato, quest’uomo che si ricordava di Dio e dei santi soltanto per
bestemmiarli, era giustappunto la Madonna. A volerle bene e a pregarla in modo
speciale lo aveva avvezzato fin da piccino la sua mamma, ripetendogli di
continuo, e con discorsi e con esempi, che non sarebbe finito del tutto a male
chi si fosse mantenuto in qualche maniera devoto della Madonna. La Madonna,
infatti è la porta del Paradiso, è il rifugio dei peccatori, è la nostra
avvocata, e il tale per aver detto così, e la tale per aver fatto in quel modo,
e i tali perché so io, s’erano tutti salvati... Un po’ per il ricordo della sua
mamma, un po’ perché le cose imparate da piccini è difficile che qualche cosa
non lascino, questo pover uomo, mentre faceva di tutto per andare all’inferno,
pregava ancora la Madonna e teneva la sua immagine a capo del letto. La pregava
a quel modo. Il Rosario, che la Madonna ha tanto gusto a sentirselo dire,
nemmeno si ricordava che cosa fosse; aveva a poco a poco dimenticato le
Litanie, la Salve Regina; non sapeva più che l’ Ave Maria, e due o tre Ave
Maria borbottate fra lo svestirsi e l’addormentarsi, ogni sera, erano tutte le
sue devozioni... Arrivò al punto, camminando sempre per quella strada
sciagurata, di scordare anche quella, e della Madonna non gli rimase che il
nome, Maria, forse perché era scritto ai piedi della sua immagine, che gli
pendeva sopra il letto... Se fosse stato meno duro, avrebbe sentito, da quell’immagine,
le lacrime gocciargli sul viso, mentre dormiva. La Madonna piangeva su quel
figliolo che le tornava ogni notte con l’anima sempre più nera, col cuore
sempre più chiuso alle Sue ispirazioni, ai Suoi amorosi rimproveri; e
vegliandolo, come una mamma il suo piccino malato, perché la morte non lo
venisse a pigliare mentre era così in disgrazia di Dio, pregava, diceva per lui
le devozioni, il Confiteor, l’Atto di contrizione. Ma, se la Madonna piangeva,
nemmeno lui, il figliol prodigo, era contento. Eh, no, alla tavola del diavolo
la vera allegrezza non si trova, per quanto possano sul principio parer dolci i
suoi vini. È la dolcezza del veleno, che si converte in amarezza appena dal
palato è disceso in corpo. Se tanti, purtroppo, seguitano e seguitano a bere, è
perché il diavolo li ha ormai ubriacati e credono che il rimedio consista nel
bere ancora dell’altro, finché tanto ne bevono che finiscono per scoppiare. Se
avesse dato retta ai rimorsi che sentiva in sé dopo ogni stravizio; se avesse
ascoltato il cuore che gli metteva a confronto il suo stato d’ora (dico quanto
a esser contento) col suo stato di prima, di quando andava alla Messa, alle
funzioni, alle prediche, di quando si confessava e comunicava, diceva il
Rosario e le devozioni, di quando insomma era un buon cristiano, l’uomo si
sarebbe forse ravvisto, e la Madonna avrebbe cessato di versare quelle Sue
lacrime di mamma, di cui il demonio rideva. Invece, per acchetare i rimorsi,
per non sentir quei paragoni, egli si buttava da un peccato in un altro, da uno
stravizio in uno stravizio peggiore, e la morte intanto si avvicinava. Anche il
pozzo dei peccati però ha un fondo, dopo il quale non c’è che tornare a galla o
sprofondar senza rimedio in casa del diavolo. Che Dio ci guardi dall’arrivare a
quel limite; e se per disgrazia ci si arrivasse, ci guardi almeno dalla
disperazione di salvarci, che sarebbe uno dei peccati contro lo Spirito Santo,
il peccato che condusse Giuda a impiccarsi quando ancora poteva chieder perdono
a Gesù! Se non era ancora arrivato a questo, l’uomo si trovava già coi piedi
sulla botola dell’inferno. La disperazione era prossima, e si sarebbe buttato
ormai allo sbaraglio se non era... Eh, chi poteva essere se non quella
santissima Vergine, cui egli non alzava più neppure uno sguardo, ne pronunziava
appena il nome, Maria, con quella stessa bocca con cui aveva per tutto il
giorno bestemmiato il Suo Figliolo e i Suoi Santi? Fatto sta che una notte,
dopo essersi involtolato nel male più di un rospo nella belletta di un pantano,
rientrò in casa, cotto dal vino, rovinato dal gioco, con un gran disgusto di
sé, con la disperazione nel cuore e la tentazione di ammazzarsi. Figuratevi se
pensò a dire le devozioni! Nell’atto però di cominciare a svestirsi, alzò, per
caso o per abitudine, gli occhi all’immagine sopra il letto e cercò la parola,
il nome, le cinque lettere a cui s’era ridotta la sua preghiera, la sua fede,
la sua speranza: Maria. Ma gli occhi, disorientati forse dal vino?, videro in
altro ordine le cinque note che suonarono tanto dolci in bocca all’Arcangelo
Gabriele, e lessero, invece di Maria: Riama. Provvido errore, se fu errore! Al
suo spirito, che, incerto fra la morte e la vita, riluttante a quella per il
disgusto e a questa per il terrore, si chiedeva gemendo che cosa fare, quella
parola, quel nome invertito fu la risposta, la risposta illuminante,
consolante, acquietante: Riama. Riama: ama di nuovo, ama come una volta, come
quand'eri bambino, come quando dicevi le devozioni... E le antiche devozioni
rifiorirono come per miracolo prima nel cuore e poi sui labbri bruciati dalla
bestemmia: Ave, Maria, gratia plena... Piegato a terra da una forza dolce e
invisibile, l’uomo abbandonò fra le mani il viso sulla sponda del letto, sotto
l’immagine, e pianse, e pianse, e pianse. E la Madonna cessò di piangere; la
Madonna sorrise, perché quel suo figliolo era salvo.
Andrea Tornelli, da Il Giornale,
17 giugno 2009
Padre Giuseppe Santarelli spiega la “Casa della Madonna” a
Loreto
L’8 settembre la Chiesa ha celebrato la festa liturgica della
Natività di Maria. In Italia, la festa prende particolare significato al
Santuario di Loreto, in provincia di Ancona, dove si trova la “Casa della
Madonna”, cioè una piccola costruzione che, secondo la tradizione, sarebbe
stata l’abitazione, a Nazaret, in Palestina, dei genitori di Maria, nella quale
quindi la Vergine Santissima sarebbe nata e cresciuta. Quella casetta, oggetto
di grandissima venerazione fin dall’inizio della storia cristiana, nel 1291
scomparve all’improvviso da Nazaret per apparire, alcuni anni dopo, sulle
colline di Loreto, dove ancora si trova. Il fatto suscitò naturalmente stupore.
Si verificarono subito prodigi di ogni genere, miracoli, guarigioni,
conversioni, che fecero pensare come quella piccola e misteriosa costruzione
avesse poteri soprannaturali. In seguito si seppe che quella casetta un tempo
era a Nazaret. Non trovando spiegazioni di come potesse essere arrivata a
Loreto, si pensò che fosse stata trasportata dagli Angeli. Comunque, la
devozione divenne subito grandissima. Per proteggere la casetta venne costruito
un santuario meraviglioso, che divenne uno dei più celebri d’Europa, visitato
da innumerevoli devoti. Nel corso dei secoli, perfino 13 Papi si recarono in
pellegrinaggio a Loreto, ultimo Benedetto XVI nel 2007. Giovanni Paolo II vi si
recò quattro volte. Negli annali del Santuario si ricordano i nomi di parecchie
persone che in vita furono pellegrine a Loreto e che, dopo la loro morte,
vennero proclamate sante. Figurano anche i nomi di innumerevoli celebrità
laiche, quali Cristoforo Colombo, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri, Torquato
Tasso, Mozart, Goldoni, Giosuè Carducci, Gabriele D’Annunzio. Michel Montaigne,
il filosofo e politico francese, si recò in pellegrinaggio a Loreto nel 1580
per ringraziare la Madonna di una grazia che aveva ricevuto per sua figlia
Eleonora. Cartesio, il filosofo francese del “Cogito ergo sum”, vi andò per
sciogliere un voto e fece la strada a piedi da Venezia a Loreto. Grande,
quindi, fu sempre la devozione della gente per questo Santuario nel quale si
conserva la “Casa natale della Madre Dio”. Ma questa espressione “casa natale
della Madre di Dio”, quale valore ha? È frutto solo di una “pia tradizione”, di
una “fede popolare”, o poggia su ragioni più concrete, su documentazioni
scientifiche? È un interrogativo che si presenta spontaneo, soprattutto
all’uomo d'oggi, imbevuto di scetticismo. Interrogativo, però, che da parte
degli studiosi riceve risposte
scientifiche incredibilmente sconcertanti.
“La storia racconta che la casa apparve all’improvviso in questo
luogo la notte tra il 9 e il 10 dicembre 1294”, dice padre Giuseppe Santarelli,
direttore dell’ente che ha lo scopo di diffondere il culto mariano e di curare
la promozione e il decoro artistico del Santuario. “Che sia stata trasportata
dagli Angeli non lo possiamo dimostrare scientificamente. Invece, oggi, dopo
anni di studi, di analisi, di ricerche archeologiche compiute con i mezzi più
sofisticati, siamo in grado di affermare categoricamente che questa casetta è
proprio quella che fino verso la fine del tredicesimo secolo era venerata a
Nazaret come la Casa della Madonna”. Padre Giuseppe Santarelli è un religioso
cappuccino, ma è anche un famoso uomo di scienza. Storico e archeologo di fama
internazionale, ha dedicato gran parte della sua vita a organizzare, in
collaborazione con altri celebri scienziati, ricerche sull’origine della
misteriosa casetta. Le sue numerose pubblicazioni sull’argomento fanno storia.
E i dati scientifici che fornisce sono veramente impressionanti e fanno capire
come la fede “semplice” dei nostri avi riguardo “la casa della Madonna”
poggiasse su basi granitiche. Siamo stati all’interno del grande Santuario di
Loreto. La casetta della Madonna è lì di fronte a noi. Povere pareti, di sassi
e mattoni, annerite dal tempo, fragili per gli anni, con mille rattoppi e
interventi eseguiti lungo il corso dei secoli che testimoniano l’amore e la
devozione dei fedeli. “Per noi credenti, questa è la reliquia più
straordinaria”, dice ancor Padre Santarelli. “Per questo la chiamiamo la “Santa
Casa”. Tra queste povere mura nacque e visse la Madonna, cioè la madre di Dio,
la creatura più santa che mai sia esistita sulla terra. Qui, Maria ebbe
l’Annunciazione dell’Angelo e qui si realizzò il più grande evento
dell’universo, l’incarnazione di Dio”. Il religioso parla sottovoce, per non
disturbare i pellegrini che, inginocchiati, sono raccolti in preghiera. “Vede
quella scritta in latino che sta sulla parete di fondo all’altezza del
tabernacolo?”, mi dice ancora padre Santarelli. “È scritto: “Hic, verbum caro
factum est”. Cioè, “Qui, in questo luogo, Dio si è fatto carne”. Cerchi di
pensare al significato concreto di questa frase. Dio, il creatore
dell’Universo, in questo luogo, di fronte a queste pietre, si è fatto uomo.
Queste pietre hanno assistito all'evento degli eventi. Per un credente, c’è da
impazzire a pensare a una cosa del genere. Ecco perché questa piccola casa
costituisce un patrimonio spirituale immenso”.
“Perché è stata trasportata da Nazaret in Italia?” chiedo.
“Per essere salvata dalla distruzione”, dice padre Santarelli.
“Nella seconda metà del secolo tredicesimo in Palestina era in atto una
violenta invasione musulmana, con la distruzione sistematica dei luoghi santi
cristiani. Qualcuno, uomini, o Angeli, o uomini con l’aiuto certamente del
soprannaturale, riuscì a salvare questa casetta portandola in Italia”.
“Ma perché proprio in Italia e non in un altro luogo?”.
“Non lo sappiamo. Gli antichi storici, credenti naturalmente,
dicevano che “per provvidenziale disegno, la Casa della Madonna era passata
dalla terra di Cristo, alla terra del vicario di Cristo”. Loreto allora faceva
parte dello Stato del Vaticano. Prima però di fermarsi in Italia, la Casa fece
trappa altrove. Dalle ricerche storiche risulta che nel maggio 1291 fu trovata
da alcuni boscaioli in una radura vicino a Tersatto, nella Dalmazia. E lì vi
rimase tre anni e mezzo, e avvennero molti prodigi. Poi, improvvisamente
com’era arrivata, scomparve. La seconda tappa fu una località nei pressi della stazione
ferroviaria di Loreto, che allora era un bosco, e si fermò lì alcuni mesi.
Passò poi sul colle di Loreto, in un campo di proprietà di due fratelli, i
quali litigavano continuamente per dividersi le offerte che facevano i
pellegrini. E la casa, dopo un po’, se ne andò da qual campo e si fermò in
mezzo a una strada, di proprietà del comune, proprio dove si trova ancora. Da
lì non si è più mossa”.
Quali ricerche sono state fatte per stabilire che questa casetta
è proprio quella che un tempo esisteva a Nazaret?
“Sono state fatte ricerche di ogni genere. Ricerche di tipo
storico e di tipo archeologico, eseguite da celebri studiosi, sia a Loreto,
come anche a Nazaret dove la Santa Casa un tempo si trovava. Tutte le ricerche
hanno sempre dimostrato che il racconto della tradizione è autentico, e cioè
che la casa di Loreto è quella che un tempo era a Nazaret. Naturalmente le
ricerche più importanti sono quelle fatte in tempi moderni. Soprattutto quelle
eseguite a Nazaret tra il 1955 e il 1960 sotto la direzione di Padre Bellarmino
Bagatti, uno dei più illustri archeologi del Ventesimo secolo, e quelle
eseguite a Loreto dall’architetto Nerio Alfieri, professore di archeologia a
Bologna. Le ricerche del professor Alfieri hanno dimostrato che questa costruzione
è piena di assurde anomalie, in netto contrasto con le costruzioni della zona e
anche con le regole urbanistiche vigenti nel tredicesimo secolo. La Casa non ha
fondamenta proprie, e poggia veramente su una strada. È costituita da sole tre
pareti, le quali, per un’altezza di circa tre metri, sono fatte di pietre, e si
sa che nella zona marchigiana non esistono cave di pietre e tutte le
costruzioni a quel tempo erano fatta in laterizi. È anomalo che l’unica porta,
quella originaria, si trovi al centro della parete lunga, e non in quella
breve, come è in tutte le chiese e cappelle del tempo, e che sia collocata a
nord esposta a forti e frequenti intemperie, contro ogni uso edilizio locale. È
anomalo ancora che l’unica finestra sia orientata a ovest e quindi aperta a una
ridotta illuminazione, anche qui contro ogni regola edilizia del tempo. Ma
tutte queste anomalie svaniscono se si confrontano con i risultati delle
ricerche archeologiche fatte a Nazaret. La casa di Loreto non ha fondamenta
perché le sue fondamenta sono rimaste a Nazaret, dove un tempo si trovava. Ha
solo tre pareti perché era appoggiata a una grotta scavata nella roccia, con la
quale costituiva un solo blocco abitativo. Uno studio straordinario compiuto
dall’architetto Nanni Monelli nel 1982, quando anch’io ero a Loreto, ha
dimostrato che se si potesse ritrasportare la casa di Loreto a Nazaret,
combacerebbe perfettamente con ciò che laggiù è stato trovato. Le misure della
casetta di Loreto e anche lo spessore delle tre pareti corrispondono perfettamente
alle misure delle fondamenta che si trovano a Nazaret. Le pietre con le quali
le pareti sono state costruite sono quelle tipiche della Palestina e anche i
tipi di muratura usati. Nanni Monelli ha fatto delle ricerche approfondite
sulle pietre, trovando che sono lavorate con una tecnica specifica di quei
luoghi palestinesi, propria della cultura nabatea, cioè di un popolo semita che
esisteva in quelle zone. Si trattava di una lavorazione a bulino realizzata con
un utensile detto ferrotondo e tondino, e di un’altra lavorazione, sempre di
tradizione nabatea, realizzata con tratti vicini e poco profondi, attuati con
una subbia a punta. Queste tecniche sono assolutamente sconosciute nell'area
italiana e in specie marchigiana. Io poi ho fatto uno studio specifico sui
graffiti ancora leggibili su diverse delle pietre della Santa Casa di Loreto.
Ne ho identificati una cinquantina e sono segni che si richiamano a quelli dei
giudei cristiani della Terra Santa e in particolare a quelli trovati a Nazaret.
Ho anche decifrato una scritta in caratteri greci sincopati, che tradotta dice:
“O Gesù Cristo, figlio di Dio”, frase iniziale di una preghiera che si trova
scritta, nella grotta che era accanto alla casa di Maria a Nazaret. Questi e
tantissimi altri particolari inducono a una sola conclusione: la Casa di Loreto
è proprio quella che fino al 1291 si trovava in Palestina e che da 1300 anni
era venerata come la Casa della Madonna”.
Tito
Casini, da Il Pane sotto la neve
La gamba di Miguel Juan
Nel 1617, a Calanda, nell’Aragona spagnola, nasce un certo
Miguel Juan Pellicer, figlio di contadini e contadino lui stesso, analfabeta,
dotato di una fede solida ed essenziale, devoto alla Vergine del Pilar di
Saragozza.
Lasciata la famiglia per non pesare sul magro bilancio dei
genitori, verso la fine di luglio del 1637, mentre lavora tra i campi, un carro
di frumento gli transita su una gamba, proprio sotto il ginocchio,
procurandogli la frattura della tibia nella parte centrale.
Tra dolori inenarrabili, vuole andare a Saragozza per mettersi
sotto la protezione della Vergine del Pilar. Cinquanta giorni di viaggio e
trecento chilometri sotto la canicola estiva, raccattando passaggi qua e là.
Quando arriva in città, praticamente moribondo, si trascina sui gomiti fin nel
santuario e qui si affida alla Vergine: “Pensaci Tu perché sto per morire”.
Con sega e scalpello – gli strumenti del tempo – gli viene
amputata la gamba, unica soluzione per salvargli la vita. Passa un anno prima
di uscire dall’ospedale con una gamba di legno, due stampelle e una specie di
patentino che gli dava la possibilità di esercitare la “professione” del
mendicante. Tutti i giorni, per due anni e mezzo, davanti alla porta del
santuario del Pilar, l’intera Saragozza gli passa accanto, lo vede, si
commuove, qualcuno lo aiuta; alla sera, quando il santuario chiude, Miguel Juan
si cosparge il moncone della gamba con un po’ di olio consumato dalle lampade
del santuario, nonostante che i medici, da cui è visitato periodicamente, lo
ammoniscano inutilmente. Quando lo riconoscono alcuni compaesani che sono a
Saragozza per un pellegrinaggio, non potendo più tenere nascosta la sua
situazione, Miguel Juan decide di tornare dai genitori a Calanda, circa 100
chilometri a sud di Saragozza. E qui, altro non può fare che riprendere a mendicare.
Il momento fatidico giunge alla sera del 29 marzo del 1640. È
giovedì. Siamo tra le dieci e le undici di sera. Miguel Juan cena con i
genitori, due vicini di casa e un soldato di cavalleria dell’Esercito Reale,
che è di passaggio e a cui era stata data ospitalità. Miguel Juan, dopo la
povera cena, si congeda dalla compagnia e decide di andare a coricarsi. Ripone
la protesi di legno e le stampelle, va a dormire nella camera da letto di mamma
e papà, perché aveva lasciato il suo giaciglio abituale al soldato.
Qualche tempo dopo, la madre entra nella camera e, sentendo un
profumo intenso “come di Paradiso”, si accorge che da quel mantello troppo
corto che ricopre il figlio addormentato spuntano due piedi. Giunge il padre,
richiamato dalla donna. In principio pensano che si tratti del soldato che ha
sbagliato stanza, ma, sollevando la coperta e guardando meglio, scoprono che
quella persona è proprio il loro figlio.
Miguel Juan, il mutilato, dorme profondamente, ma ha riattaccata
quella gamba che, due anni e cinque mesi prima, gli era stata amputata. E non
si tratta di una gamba qualsiasi, ma proprio della sua, con tutte le
caratteristiche e le cicatrici del suo arto e con un circolino rosso nel punto
in cui era avvenuta 1’amputazione. Svegliano il figlio.
Stava sognando – dirà Miguel Juan – di essere a Saragozza nella
cappello della Vergine del Pilar e che si ungeva la gamba segata con l’olio di
una lampada, come era uso fare quando era in quel santuario. Un miracolo
straordinario, quello di un arto amputato improvvisamente riattaccato, che solo
Dio, l’autore e il padrone delle leggi della natura può compiere. Se il fatto e
vera, allora la conclusione si impone: Dio esiste.
Ma ci vogliono le prove. Le prove ci sono, eccome. E sono tante,
tutte concordi, ben fondate, ottimamente documentate, al punto che Messori si
spinge a dire: “Dovrebbe dubitare di tutta quanta la storia umana, compresi i
fatti più certi perché più attestati, chi rifiutasse la verità di quanta
successo a Calanda quella sera di marzo della settimana di Passione del 1640”.
Vediamole in sintesi.
II miracolo viene attestato solo sessanta ore dopo da tutte le
autorità locali: il vicario parrocchiale don Jusepe Herrero, il justicia (il
giudice e insieme il responsabile dell’ordine pubblico) Martin Corellano, il
sindaco Miguel Escobedo, il suo vice Martin Galindo e, soprattutto, il notaio
reale Lazaro Macario Gomez.
In pochissimi giorni viene istituito un processo pubblico in cui
sfilano decine e decine di testimoni oculari, nel frattempo, viene visitato il
luogo dove era stata sepolta dai medici la gamba amputata, ma viene trovato
vuoto (come riportato da un Aviso Historico, un giornale del tempo). Dopo quasi
undici mesi di lavoro e con quattordici sedute pubbliche e plenarie, si pronuncia
la sentenza del processo di Saragozza in data 27 aprile 1641: “Perciò
affermiamo e dichiariamo che a Miguel Juan Pellicer, contadino di Calanda, fu
restituita la gamba che gli era stata amputata due anni e cinque mesi prima; e
che non fu un fatto di natura, ma opera mirabile e miracolosa, ottenuta per
intercessione della Vergine del Pilar”.
I ventiquattro testimoni oculari, scelti dal tribunale di
Saragozza tra innumerevoli possibili, possono essere suddivisi in cinque
gruppi. Cinque sono medici ed infermieri, e tra loro il chirurgo che amputo la
gamba e i due sanitari di Calanda che procedettero alla visita immediatamente
dopo l’evento. Cinque tra familiari e i vicini di casa. Quattro sono autorità
locali di Calanda, sopra ricordate. Quattro sono ecclesiastici, sia di
Saragozza che di Calanda. Sei “vari”, tra cui l’oste, nella cui bettola vicino
al Pilar Miguel Juan, storpio, passava la notte quando rimediava quattro soldi
di elemosina e un altro oste, di Samper, dal quale aveva alloggiato sulla
strada del ritorno a casa. I testimoni sono scelti per dar conto, sotto
giuramento, delle differenti tappe della storia di Miguel Juan Pellicer: la
frattura, 1’amputazione, la mendicità al Pilar, il ritorno al paese natale,
1’evento miracoloso del 29 marzo e i fatti dei giorni successivi.
È così straordinario quanto è accaduto a Calanda, che il giovane
contadino Miguel Juan venne ricevuto addirittura dal re Filippo IV, il più
orgoglioso sovrano del mondo, il monarca dell’impero dove “non tramontava mai
il sole”. Il sovrano, dopo aver sentito la sua testimonianza e 1’inequivocabile
sequenza di eventi da parte delle più importanti autorità spagnole, si
inginocchia davanti al contadino, gli bacia con devozione la cicatrice, rimasta
là dove l’arto era stato amputato e poi riattaccato.
Che cosa dire di questa storia, così minuziosamente investigata
da Vittorio Messori nel suo libro “Il Miracolo”? Forse le parole migliori sono
quelle che l’autore adopera, da storico e da giornalista, per concludere la sua
opera indagatrice.
“In quelle ”notti oscure” di cui parlano proprio i mistici
spagnoli, in quei momenti (inevitabili, fisiologici nella strutture della fede)
in cui il dubbio sembra rodere, malgrado ogni accumulo di “ragioni per
credere”; ebbene proprio allora soccorre il ricordo di un campanile che si
leva, vigoroso, sul Desierto de Calanda, nella Bassa Aragona. Una torre che ha
l’aspetto di un punto esclamativo: segnala, infatti, almeno un luogo nel mondo
dove “la scommessa sul Vangelo” si scioglie in quella certezza che solo un
fatto oggettivo, constatabile, sicuro può garantire. Lì la cronaca, la storia,
sembrano davvero spalancare, all’improvviso, una finestra verso 1’Eterno.”
Sì, Dio esiste e a Calanda ha dimostrato che nulla gli è
impossibile. Lì ha deciso intervenire nella “carnalità” dell’esistenza del
giovane contadino Miguel Juan Pellicer, di annullare ciò che era avvenuto per
mezzo dell’uomo, di sospendere tutte le leggi della natura, di riparare ciò che
era irreparabile.
A Calanda, Dio, attraverso l’intercessione di Maria Vergine, ha
voluto lasciare un segno concreto, tangibile, indubitabile. Per usare le parole
dell’arcivescovo di Saragozza “Com’e stato dimostrato con certezza nel
processo, il detto Miguel Juan fu visto prima senza una gamba e poi con questa.
Quindi non si vede come si possa dubitare di ciò”.
Nessun dubbio, dunque: questa gamba riattaccata può essere un
grimaldello per fare breccia nello scetticismo dell’uomo postmoderno. Ma
Calanda dice molto anche a certi cattolici, soprattutto a quella intellighenzia
la cui fede si vuole adulta e che bolla i miracoli e altre forme di religiosità
popolare come favolette superstiziose, adatte per vecchiette e per bigotti.
Renzo
Allegri
Arokia Matha - Madre della Buona Salute (Vailankanni - Bengala)
Sulla costa del Golfo del
Bengala, 250 km a sud della città di Madras, c’è un luogo assai singolare. Un
piccolo paese di appena cinquemila abitanti dove ogni anno accorrono oltre
venti milioni di pellegrini da ogni angolo dell’India e da altri paesi della
terra, per visitarlo con devozione. Questo ridente paesino indiano, ricco di
palmizi, si chiama Vailankanni e a noi occidentali il suo nome probabilmente
non dice molto, ma nell’immaginario religioso dell’immenso continente asiatico
è conosciuto e venerato come la “Lourdes d’Oriente”.
La Madonna, secondo la tradizione, avrebbe scelto proprio questo
sperduto paese del Bengala per mostrare la sua sollecitudine materna, operando
miracoli e apparendovi diverse volte. Una tradizione orale ben fondata, parla
di tre apparizioni di Maria. La prima risalirebbe al sedicesimo secolo. Un
ragazzo indù stava andando a consegnare il latte a un cliente; mentre riposava
sotto un albero, vicino a un laghetto, gli apparve la Madonna chiedendogli un
po’ di latte per il Bambino. Il ragazzo acconsentì prontamente per poi rimettersi
in cammino. Arrivato alla casa del cliente chiese scusa per il ritardo e anche
per il latte che mancava. Controllando invece il recipiente del latte si
accorse che non mancava niente. Lo stesso signore, anch’egli un indù,
incuriosito dal racconto del ragazzo, si recò con lui al laghetto. E lì la
Madonna apparve di nuovo. Il fatto si diffuse tra la comunità cattolica vicina
che chiamò quel laghetto Matha Kalum, cioè il Laghetto di Nostra Signora.
Alcuni anni più tardi la Madonna apparve di nuovo, questa volta
a un ragazzo disabile che vendeva burro in una piazza dello stesso villaggio di
Vailankanni. A lui la Madonna domandò un po’ di burro per il suo Bambino. Il
ragazzo glielo diede. Poi la Madonna gli disse di parlare dell’accaduto ad un
facoltoso cattolico di una città vicina. Il ragazzo non si accorse subito di
essere guarito alla sua gamba. Si alzò immediatamente e si recò da quel signore
per eseguire la commissione. Anche lui, il giorno prima, aveva avuto una
visione, in cui la Madonna gli chiedeva di edificarle una cappella. Subito
dopo, insieme, si recarono al luogo dove Nostra Signora era apparsa. E proprio
qui fu costruita una piccola cappella (una capanna), che ben presto divenne un
luogo di culto alla Madonna, chiamata “Arokia Matha” cioè “Madre della Buona
Salute”.
Il terzo miracolo riguarda invece dei mercanti portoghesi che,
per intercessione della Madonna, furono salvati dal naufragio. Essi furono poi
condotti dai pescatori del luogo a quella capanna-cappella. Questi mercanti,
tornati dal loro viaggio, fecero costruire una vera cappella, dedicandola a
Nostra Signora nel giorno della sua natività. Era l’8 settembre. In questo modo
volevano ricordare il giorno del loro prodigioso salvataggio dalla tempesta al
largo di Velankanni. Da alcuni anni, l’11 febbraio, giorno in cui la Chiesa
commemora l’apparizione di Nostra Signora a Lourdes, è stato significativamente
associato a un evento importante: la celebrazione della Giornata Mondiale del
Malato. Nell’anno 2002, in cui se n’è celebrato il decimo appuntamento, questa
celebrazione ha avuto luogo proprio presso il noto centro di pellegrinaggio
mariano dell’India meridionale, il Santuario della “Madonna della Salute” di
Vailankanni. E, di certo, non a caso. Da diversi secoli, infatti, con fiducia e
profonda devozione, milioni di uomini e donne raggiungono il santuario situato
sulle coste del Golfo del Bengala, certi dell’aiuto celeste della Madre di Dio
per tutte le loro necessità, soprattutto guarigioni dalle sofferenze corporali
che li affliggono.
“Vailankanni - scriveva il papa Giovanni Paolo II - “non attrae
solo pellegrini cristiani, ma anche molti seguaci di altre religioni, in
particolare indù che vedono nella Madonna della Salute la Madre premurosa e
compassionevole dell’umanità sofferente”. Per questo motivo, il santuario è
divenuto oggi “un punto di incontro per membri di diverse religioni e un
esempio eccezionale di armonia e scambio interreligiosi”.
Miriam Soter
Maria, la donna per tutti!
Il Beato Angelico, giovane frate, ritornava una sera al
convento, recitando il Rosario. Attraversava la campagna. Gli apparve la Regina
del Cielo; tanti Angeli le stavano vicino, cantando ed intrecciando una corona
di rose. Il frate interruppe la recita del Rosario per contemplare quella scena
di Paradiso. Gli Angeli interruppero pure il canto e lasciarono incompiuta la
corona di rose. Sorpreso, il Beato Angelico ripiglio la preghiera e gli Angeli
ricominciarono a cantare; ad ogni Ave Maria, una nuova rosa veniva inserita
nella corona. Terminato il Rosario, il serto di rose fu presentato dagli Angeli
a Maria. Il frate non dimentico più la visione. Si sforzo di riprodurla in
pittura. Trascorse la vita nella preghiera e nel lavoro, lasciando una grande
quantità di quadri, rappresentanti la Madonna e gli Angeli. Negli ultimi
istanti della vita, miro a lungo in alto, quasi trasfigurandosi in viso per
l’emozione; poi esclamo: “La Madonna e molto più bella di quanto io l’abbia
dipinta!”. E spirò.
Com’è nata la preghiera dell’Angelus
La recita dell’Angelus, accompagnata tre volte al giorno dal
suono delle campane delle chiese, ebbe inizio proprio nel 1200, il fecondo
secolo della Teologia Scolastica e delle Cattedrali gotiche, ma anche di grande
devozione alla Madonna.
Dapprima si chiamò “preghiera della pace”: aveva, infatti, lo
scopo di onorare il Figlio di Dio che, incarnandosi nel seno della Vergine
Maria, pose i fondamenti della pace tra Dio e gli uomini.
Inizialmente si usava recitarlo solo alla sera, perché si
riteneva che l’Arcangelo Gabriele si fosse presentato alla Vergine di Nazareth
verso il tramonto, per annunziarle il mistero della sua divina maternità. Né
aveva la forma attuale, consistendo nel rivolgere alcune volte a Maria le
parole dell’Angelo (Ave, piena di Grazia: il Signore è con te) e quelle del
saluto di Elisabetta (Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo
grembo). Consisteva, cioè, nella prima parte dell’Ave Maria.
Solo più tardi assunse progressivamente la forma attuale. Ma chi
ne fu l’iniziatore? Alcuni ritengono che la pia pratica sia sorta in Germania,
appunto all’inizio del XII secolo. Lo deducono da espressioni del genere
seguente, incise sulle campane del tempo: “Ave Maria - Rex gloriae Coriste,
veni cum pace” oppure: “Maria vocor - o Rex gloriae, veni cum pace.”
Altri attribuiscono l’origine della pratica mariana a Gregorio
IX (1241), il Papa che fu eletto a 85 anni e morì quasi centenario.
Le prime notizie sicure risalgono piuttosto alla seconda metà
del sec. XIII.
In una Chronica francescana dell’epoca, si legge infatti che nel
Capitolo generale dell’Ordine tenuto da San Bonaventura a Pisa nel 1263, fu
stabilito che “i frati nei discorsi persuadessero il popolo a salutare alcune
volte la Beata Vergine Maria al suono della campanari Compieta, perché è
opinione di alcuni solenni dottori che in quell’ora essa fosse salutata
dall’Angelo.” A San Bonaventura, del resto, doveva stare molto a cuore la pia
pratica, tanto che la raccomandò anche nel Capitolo generale di Assisi del
1269.
La pratica dell’Angelus, predicata dai Francescani, si diffuse
rapidamente. Nel 1274 la si trova a Magonza, e nel 1288 a Lodi, ove lo “Statuto
dei Calzolai” ordinava che essi dovessero subito smettere il lavoro, al sabato
sera e alla Vigilia delle feste della Madonna, “appena udito il primo suono
delle campane dell’Ave Maria, dal campanile della Chiesa Maggiore”, pena la
multa di 20 “imperiali”!
Lo stesso modo di suonare la campana all’Angelus e il numero
delle Ave Maria si trovano già precisati nelle “Costituzioni” del Capitolo
provinciale francescano tenuto a Padova nel 1295: “In tutti i luoghi - vi si legge - si suoni la sera un poco per
tre volte la campana ad onore della gloriosa Vergine, e allora tutti i frati genufletteranno
e diranno tre volte: “Ave Maria, gratia plena”.
In un decreto del “Sinodo di Strigonia” (Ungheria) del 1307 si
prescriveva che tutte le sere si suonasse la campana ad instar tintinnabuli
(dolcemente), e si concedevano indulgenze ai fedeli che a quel suono avessero
recitato tre Avemaria.
Il
Beato Angelico e il Rosario
La Santa Casa di Loreto nelle visioni della Beata Anna Katharina
Emmerick
Nel caso della Beata Caterina Emmerich si può dire che, ancora
di più che della rivelazione di Santa Caterina da Bologna, l’autenticità e
veridicità delle sue “rivelazioni” e “visioni” avute (oltre che dal riscontro
oggettivo fatto nella realtà), sono state avallate in modo straordinario
proprio da Dio stesso, con il “miracolo vivente” della sua “sussistenza
miracolosa” mediante il solo “nutrimento” della sola Comunione con Gesù
Eucaristia. Non può perciò ella aver ingannato nessuno, se Dio stesso ne
comprovava la veridicità di quanto affermava con il “miracolo vivente” che la
sua vita stessa costituiva presso i suoi contemporanei.
In proposito, Gesù stesso dice nel Vangelo (e ciò forse non vale
anche per i suoi Santi?…): “Se non compio le opere del Padre mio, non
credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno
alle opere…” (Gv 10, 37-38). E anche “Se fossi io a render testimonianza a me
stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c’è un altro che mi rende
testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace” (Gv 5,
31-32). E ancora: “Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno
accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica
che Dio è veritiero” (Gv3, 32-33).
A riguardo della Santa Casa di Loreto, la Beata Caterina
Emmerich - per anni immobile nel letto - la descrive con esattezza, pur senza
averla mai vista, dichiarando che ivi avvenne l’Annunciazione dell’Angelo a
Maria; e afferma anch’ella che la Santa Casa fu portata via da Nazareth proprio
dagli “Angeli” (quelli “veri”, quelli “spirituali”), e proprio “in volo”, e
affermando risolutamente (e testualmente): “Le pareti della Santa Casa di
Loreto sono assolutamente le stesse di Nazareth” (cfr. “Le Rivelazioni di
Caterina Emmerick”, ed. Cantagalli, Siena, 1968, I°, p.140).
Questa è la descrizione del “trasporto angelico” della Santa
Casa come avuto “in visione” dalla Beata: “Ho visto spesso, in visione, la
traslazione della Santa Casa di Loreto. …Ho visto la Santa Casa trasportata
sopra il mare da sette Angeli. Non aveva alcun fondamento… Tre Angeli la
tenevano da una parte e tre dall’altra; il settimo si librava di fronte: una
lunga scia di luce sopra di lui…” (Beata Caterina Emmerick, “Vita di Gesù
Cristo e rivelazioni bibliche”, cap. IV, par.2°).
La Beata Caterina Emmerich, nel testo sopra riportato, “rivela”
persino il numero degli Angeli deputati da Dio a questo “miracoloso trasporto”:
esattamente sette Angeli. Forse che “episodi” simili non si leggono anche nella
Sacra Scrittura? (cfr. Es 14, 19; Es 23, 20-23; Tb 8, 3; Dn14, 33-36; e tanti
altri)… Forse che Dio non può far fare dagli Angeli, nel Nuovo Testamento,
quanto faceva a loro fare nel Vecchio Testamento? (cfr. anche At 8, 39-40)… Non
c’è anche scritto nel Salmo (90, 12), a riguardo degli Angeli: “Sulle loro mani
ti porteranno…”?
Beata Vergine Maria del Monte Carmelo
Il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.), dimorando sul
Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine che si alzava come
una piccola nube, dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando
Israele dalla siccità. In quella immagine tutti i mistici cristiani e gli
esegeti hanno sempre visto la Vergine Maria che, portando in sé il Verbo
divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo.
Un gruppo di eremiti, “Fratelli della Beata Vergine Maria del
Monte Carmelo”, costruirono una cappella dedicata alla Vergine sul Monte
Carmelo. I monaci carmelitani fondarono, inoltre, dei monasteri in Occidente.
Il 16 luglio del 1251 la Vergine, circondata da angeli e con il
Bambino in braccio, apparve al primo Padre generale dell’Ordine, S. Simone
Stock, al quale diede lo “Scapolare” col “Privilegio Sabatino”, ossia la
promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la
liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Nelle “Cronache del Carmelo” sono riportati numerosi e autentici
prodigi relativi allo “Scapolare” fra cui :
Agli inizi del XX sec., a Ashtabula (Ohio), un uomo,
attraversando imprudentemente il passaggio a livello fu letteralmente tagliato
in due. Alla sorpresa generale resta in vita e reclama i soccorsi di un prete;
quest’ultimo arriva e sente la confessione dell’uomo rimasto cosciente per tre
quarti d’ora. Dopo aver ricevuto l’estrema unzione, questo peccatore,
riconciliato “in extremis” con Dio, muore in pace. Sul suo petto fu trovato lo
Scapolare.
Lo Scapolare salva ancora un prete francese colpito a bruciapelo
da un proiettile mentre celebrava la messa. Miracolosamente lo Scapolare aveva
fatto da scudo in quanto il proiettile fu ritrovato incollato su di esso.
Anche S. Alfonso Maria de’ Liguori e Don Bosco portavano lo Scapolare e, in
ambedue i casi, alla loro riesumazione ai fini dei processi di beatificazione,
i loro corpi erano ridotti in polvere mentre gli Scapolari erano rimasti
intatti (lo Scapolare di S. Alfonso è esposto al Monastero S. Alfonso di Roma).
S. Pio X (Giuseppe Sarto, 1903-1914), con decreto “Cum Sacra”
del 16 dicembre 1910, ha concesso la facoltà di sostituire lo Scapolare di
tessuto (lana) con una medaglia a causa del rapido deterioramento della stoffa
nei paesi caldi. Questa concessione è stata, in seguito, estesa in tutto il
mondo. La medaglia (benedetta secondo una formula di benedizione dei
Carmelitani) deve comportare da una parte Nostro Signore che mostra il suo
Cuore e dall’altra la Vergine Maria del Monte Carmelo.
A Fatima le Apparizioni si conclusero con la visione della
Madonna del Carmelo. Lucia, fattasi poi carmelitana scalza, disse che nel
messaggio della Madonna “il Rosario e lo Scapolare sono inseparabili”.
Il Venerabile Pio XII (Eugenio Pacelli, 1939-1958) affermò che
“chi lo indossa viene associato in modo più o meno stretto, all’Ordine
Carmelitano”, aggiungendo “quante anime buone hanno dovuto, anche in
circostanze umanamente disperate, la loro suprema conversione e la loro
salvezza eterna allo Scapolare che indossavano! Quanti, inoltre, nei pericoli
del corpo e dell’anima, hanno sentito, grazie ad esso, la protezione materna di
Maria! La devozione allo Scapolare ha fatto riversare su tutto
il mondo, fiumi di grazie spirituali e temporali”.
Altri papi ne hanno approvato e raccomandato il culto come il
Beato Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, 1958-1963) e il Beato Giovanni
Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) che scrisse ai padri Joseph Chalmers
e Camilo Maccise, dell’Ordine dei “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte
Carmelo”: «Anch’io porto sul mio cuore, da tanto tempo, lo Scapolare del
Carmine! Per l’amore che nutro verso la comune Madre celeste, la cui protezione
sperimento continuamente, auguro che quest’anno mariano aiuti tutti i religiosi
e le religiose del Carmelo e i pii fedeli che la venerano filialmente, a
crescere nel suo amore e a irradiare nel mondo la presenza di questa Donna del
silenzio e della preghiera, invocata come Madre della misericordia, Madre della
speranza e della grazia. Con questi auspici, imparto volentieri la Benedizione
Apostolica a tutti i frati, le monache, le suore, i laici e le laiche della
Famiglia carmelitana, che tanto operano per diffondere tra il popolo di Dio la
vera devozione a Maria, Stella del mare e Fiore del Carmelo!» (Dal Vaticano, 25
marzo 2001, Joannes Paulus II).
da
La voce cattolica
Farsi casa
Si dice che a Lourdes la Madonna riceva in udienza pubblica,
mentre a Fatima riceve in udienza privata. Credo che sia vero, perché i due
santuari comunicano sensazioni molto differenti. Ma se è così, a Loreto invece
la Madonna ti invita a casa sua e ti offre il caffè.
Tutto a Loreto parla di ferialità, di semplicità, lo si potrebbe
dire un santuario casalingo. Non che manchi la solennità o il fasto, ma non è
mai esibito, potresti quasi dirlo discreto. Una regalità sommessa, una
solennità soffusa sembrano essere il carattere lauretano. Del resto a pensarci
è del tutto logico, dove potrebbe altrimenti viversi la spiritualità di
Nazareth se non nella Santa Casa? Dove altrimenti imparare ad essere famiglia?
Però l’altro ieri la Madonna ha davvero esagerato! Vado
abbastanza spesso a Loreto, ma una combinazione fortuita come quella non si era
mai presentata ed ho potuto rimanere da solo nella Santa Casa molto a lungo e
mentre accarezzavo le pietre amate, contemplandone amorosamente i familiari
graffi e macchie, un pensiero mi ha colpito, quasi come una voce interiore:
“Ciò che rende santa questa casa è la presenza di Maria in essa, ma se Maria
vive in te allora la santa casa sei tu! Fatti casa per tutti quelli che
incontrerai e troverai la pace di Loreto”.
Farsi casa! Che ideale bellissimo! In un mondo sempre più
inospitale e aggressivo, dove la violenza ideologica di briganti politici
filosofici o teologici lascia a terra sempre più vittime moribonde, essere la
locanda tra Gerusalemme e Gerico, per accogliere un Uomo Concreto sempre più
ferito e smarrito, abbandonato da preti e farisei distratti dai loro progetti
pastorali o dalle loro ansie di restaurazione o di progresso (che altro non
sono che due facce del medesimo peccato di orgoglio: la fede trasformata in
ideologia) a sanguinare sulle vie della storia. Tenetevi pure i vostri
dibattiti e le vostre polemiche intellettuali, non ho tempo per questo,
lasciatemi solo olio e vino per curare i moribondi.
Farsi casa! Essere famiglia per vincere la solitudine disperata
che ci stringe da ogni parte, aprire senza riserve le porte del cuore perché
ognuno si senta accolto, dal barbone alcolizzato al professore cinico e
disperato, dal giovanotto pieno di speranze frustrate alla fanciulla bellissima
nel suo fiorire e violentata nella sua innocenza. Farsi casa! Perché ognuno
trovi in me una parola, un sorriso, una carezza, una speranza. Farsi casa,
perché nessuno mai più sia solo.
Farsi casa è la via della Nuova Evangelizzazione. Sarà anche
vero che la sfida di fronte a cui si trova oggi la Chiesa è quella della
rielaborazione di una cultura cristiana, ma la cultura cristiana medioevale è
nata nei monasteri, oasi di umanità nella barbarie, casa di uomini smarriti e
dispersi, così oggi credo che la Nuova Cultura Cristiana di cui abbiamo
disperatamente bisogno non nasca nelle aule universitarie o nelle aule
parlamentari (in cui a scanso di equivoci dovrà comunque approdare, ma in un
secondo tempo), ma in famiglia, o anche nelle parrocchie e nei conventi, ma
solo nella misura in cui sapranno essere famiglie, là dove, come a Loreto, la
solennità si fa feriale, la maestà di Dio diventa vicina e quotidiana.
Evangelizzare non è inculcare, non è imporre delle leggi, ma mostrare
e perfino direi esibire uno stile di vita che è l’unico umano, ma come in
famiglia si dismettono uniformi e segni di potere così farsi casa significherà
mostrare la forza del Vangelo feriale, la sua capacità di farsi concretezza
quotidiana di vita. Beninteso, non c’è casa senza regole e senza autorità, ma
le regole della casa sono regole flessibili, misurate sulla concretezza
dell’uomo e l’autorità è tale perché fa crescere e non perché si impone con la
forza. Farsi casa allora significherà anche questo: imparare a dire la verità
nella mitezza e nella quotidianità di ciascuno.
Per farmi casa devo innanzitutto aprire il cuore ad ognuno che
incontro, senza doppi fondi, senza uscite di sicurezza, senza vie di fuga.
Rischiare sempre gli affetti, innamorarsi di ogni uomo e donna, sapendo che il
mio cuore è comunque custodito dalla Verginità che mi preserva e mi spinge
verso l’Unico. Perché la casa è il luogo degli affetti, là dove ognuno sente
che il suo cuore riposa, e il cuore non riposa se non là dove non si sente
minacciato, ma custodito ed amato. Farsi casa è misurare l’annuncio
sull’ascoltatore e non su me stesso.
E mentre sono sempre di più i miei fratelli che impugnano lo
spadone a due mani o si rifugiano nella comodità delle sacrestie, io, come Francesco,
voglio andare incontro al sultano a mani nude, disarmato, per offrirgli
accoglienza. Una casa non è una fortezza, chiusa da bastioni inattaccabili in
una logica difensiva dettata dalla paura, una casa ha le porte aperte e un
focolare acceso. Nessun cedimento alla logica del mondo quindi, nessun
compromesso sull’identità, perché la casa è innanzitutto la casa di Maria e
della Sacra Famiglia, ma nemmeno barriere culturali, ideologiche, affermazione
orgogliosa della propria diversità. Sì siamo diversi, certo, ma non c’è bisogno
di menarne vanto, come nessuno tra le mura domestiche si vanta del proprio
nome, che del resto non è suo, ma ha ricevuto in dono.
Farsi casa è scendere nelle strade, abbandonare la sicurezza dei
recinti culturali e materiali, portando in sé la certezza dell’appartenenza che
ci custodisce nella Verità. Farsi casa è rischiare il sacerdozio nella laicità,
la vita religiosa nella secolarità, perché è il Pastore a cercare le pecore e
non viceversa. Farsi casa dunque porta con sé i rischi concretissimi della
strada, che è persecuzione, violenza, sopruso. Ma come potremo essere degni
discepoli di un maestro crocefisso se non ci consegneremo indifesi nelle mani
del mondo?
Dopo il Concilio venne la stagione dell’Abbattere i Bastioni, secondo
il felice titolo di un aureo libretto di Von Balthasar, questo è stato fatto
senza troppo criterio e spesso insieme ai bastioni son venute giù case e
gloriosi monumenti, così da un po’ di tempo in qua risuona nella Chiesa
l’appello a rialzare i bastioni frettolosamente abbattuti, ma non può essere
questa la via! L’identità della Chiesa non può che essere un’identità
crocefissa, martire, nel duplice senso di testimone e perseguitata e perciò
stesso indifesa. La nostra identità non è nelle forme, non più di quanto la
santità stia nelle devozioni, non è dunque in quelle che dobbiamo confidare,
pena ridurre la fede ad archeologia. L’amore a Cristo, a Maria, all’uomo e
dunque al rischio che comporta sempre il dialogo, presupposto di ogni annuncio,
l’essere casa accogliente dove possa scattare la scintilla dell’incontro tra
divino ed umano, è la nostra sola via.
In una parola sola farsi casa significa non essere né
progressisti né conservatori, ma semplicemente santi.
La Madonna a Hiroshima e Nagasaki
Su Hiroshima è caduta una bomba atomica.
Lo scopo era di annientare Hiroshima per distruggere il potere
militare giapponese.
Ma la Madonna, la Regina del Rosario, ha protetto
miracolosamente una piccola comunità di quattro padri gesuiti, che vivevano
nella casa parrocchiale, a soltanto otto isolati dal centro dell’esplosione.
Padre Hubert Schiffer aveva 30 anni e lavorava nella parrocchia
dell’Assunzione di Maria, a Hiroshima. Ha dato la sua testimonianza davanti a
decine di migliaia di persone: “Attorno a me c’era soltanto una luce
abbagliante. Tutto a un tratto, tutto si riempì istantaneamente da una
esplosione terribile. Sono stato scaraventato nell’aria. Poi si è fatto tutto
buio, silenzio, niente. Mi sono trovato su una trave di legno spaccata, con la
faccia verso il basso. Il sangue scorreva sulla guancia. Non ho visto niente,
non ho sentito niente. Ho creduto di essere morto. Poi ho sentito la mia
propria voce. Questo è stato il più terribile di tutti quegli eventi. Mi ha fatto
capire che ero ancora vivo e ho cominciato a rendermi conto che c’era stata una
terribile catastrofe! Per un giorno intero i miei tre confratelli ed io siamo
stati in questo inferno di fuoco, di fumo e radiazioni, finché siamo stati
trovati ed aiutati da soccorritori. Tutti eravamo feriti, ma con la grazia di
Dio siamo sopravvissuti”.
Nessuno sa spiegare con logica umana, perché questi quattro
padri gesuiti furono i soli sopravvissuti entro un raggio di 1.500 metri. Per
tutti gli esperti rimane un enigma, perché nessuno dei quattro padri è rimasto
contaminato dalla radiazione atomica, e perché la loro casa, la casa
parrocchiale, era ancora in piedi, mentre tutte le altre case intorno erano
state distrutte e bruciate. Anche i 200 medici americani e giapponesi che,
secondo le loro stesse testimonianze, hanno esaminato padre Schiffer, non hanno
trovato nessuna spiegazione a perché mai, dopo 33 anni dallo scoppio, il padre
non soffriva nessuna conseguenza dell’esplosione atomica e continuava a vivere
in buona salute.
Perplessi, hanno avuto tutti sempre la stessa risposta alle
tante loro domande: “Come missionari abbiamo voluto vivere nel nostro paese il
messaggio della Madonna di Fatima e perciò abbiamo pregato tutti i giorni il
Rosario”. Ecco il messaggio pieno di speranza di Hiroshima: La preghiera del
Rosario è più forte della bomba atomica! Oggi, nel centro della città
ricostruita di Hiroshima, si trova una chiesa dedicata alla Madonna. Le 15
vetrate mostrano i 15 misteri del Rosario, che si prega in questa chiesa giorno
e notte.
Un altro racconto di padre Schiffer aggiunge che avevano appena
finito di dire Messa, e si erano recati a fare colazione, quando la bomba
cadde: “Improvvisamente, una terrificante esplosione riempì l’aria come di una
tempesta di fuoco. Una forza invisibile mi tolse dalla sedia, mi scagliò
attraverso l’aria, mi sbalzò, mi buttò, mi fece volteggiare come una foglia in
una raffica di vento d’autunno”. Quando riaprì gli occhi, egli, guardandosi
intorno, vide che non vi erano più edifici in piedi, fatta eccezione per la
casa parrocchiale. Tutti gli altri in un raggio di circa 1,5 chilometri, si
racconta, morirono immediatamente, e quelli più distanti morirono in pochi
giorni per le radiazioni gamma. Tuttavia, il solo danno fisico che padre
Schiffer accusò, fu quello di sentire alcuni pezzi di vetro dietro il collo.
Dopo la resa del Giappone, i medici dell’esercito americano gli spiegarono che
il suo corpo avrebbe potuto iniziare a deteriorarsi a causa delle radiazioni.
Con stupore dei medici, il corpo di padre Schiffer sembrava non contenere
radiazioni o effetti dannosi della bomba. In realtà, egli visse per altri 33
anni in buona salute, e partecipò al Congresso Eucaristico tenutosi a
Philadelphia nel 1976. In quella data, tutti gli otto membri della comunità dei
Gesuiti di Hiroshima erano ancora in vita. Questi sono i nomi degli altri
sacerdoti gesuiti che sopravvissero all’esplosione: Fr. Hugo Lassalle, Fr.
Kleinsorge, Fr. Cieslik.
Un miracolo simile avvenne anche a Nagasaki, dove un convento
francescano - “Mugenzai no Sono” (Giardino dell’Immacolata) - fondato da San
Massimiliano Kolbe rimase illeso come a Hiroshima. Dal giorno in cui le bombe
caddero, i gesuiti superstiti furono esaminati più di 200 volte dagli
scienziati senza giungere ad alcuna conclusione, se non che la sopravvivenza
degli otto gesuiti all’esplosione fu un evento inspiegabile per la scienza
umana.
Sapevate che nel 1945 il 70% dei cattolici giapponesi viveva a
Nagasaki? Era “la città cattolica del Giappone”.
Testimonianza del prof. Hikoka Vanamuri - sopravvissuto di
Hiroshima nel 6 agosto 1945 (tratto da nelcuoredimaria) Hikoka Vanamuri, già
professore all’Università di Tokio in filosofia, è stato intervistato in
occasione del suo pellegrinaggio a Fatima, e così ha risposto: “Non tornerò in
Giappone. Dopo anni di studi, dopo anni di meditazione ho compreso che la vita
nell’atmosfera viziata di Buddha è rimasta un’inacidita testimonianza storica
di paganesimo vociferante e mi sono convertito alla religione cattolica. La
decisione l’ho presa dopo lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima. Ero a
Hiroshima per una ricerca storica. Lo scoppio della bomba mi trovò in
biblioteca. Consultavo un libro portoghese e mi venne sott’occhio l’immagine
della Madonna di Fatima. Mi sembra che questa si muovesse, dicesse qualcosa.
All’improvviso una luce abbagliante, vivissima mi ferì le pupille. Rimasi
impietrito. Era accaduto il cataclisma. Il cielo si era oscurato, una nuvola di
polvere bruna aveva coperto la città. La biblioteca bruciava. Gli uomini
bruciavano. I bambini bruciavano. L’aria stessa bruciava. Io non avevo portato
la minima scalfittura. Il segno del miracolo era evidente. Non riuscivo
tuttavia a spiegare quello che era successo. Ma il miracolo ha una spiegazione?
Non riuscivo nemmeno a pensare. Solo l’immagine della Madonna di Fatima mi
splendeva su tutti i fuochi, sugli incendi, sulla barbarie degli uomini. Senza
dubbio ero stato salvato perché portassi la testimonianza della Vergine su
tutta la terra. Il dott. Keia Mujnuri, un amico dal quale mi recai quindici
giorni dopo stabilì attraverso i raggi X che il mio corpo non aveva sofferto
scottature. La barriera del mistero si frantumava. Cominciavo a credere nella
bellezza dell’amore. Imparai il catechismo ma sul cuore tenevo l’immagine di
Lei, il canto soave di Fatima. Desideravo il Signore per confessarmi, ma lo
desideravo per mezzo di Sua Madre”.
Don Fabio Bartoli
Lei
Ogni giorno ricevo da un sito francese una breve meditazione
sulla Madonna. Il 29 luglio 2007 mi è stato mandato un aneddoto riguardante un
pastore protestante di Scozia che aveva nel circondario della sua parrocchia
diversi irlandesi. Poiché questi ultimi erano cattolici, il pastore le studiava
tutte per convertirli. Un giorno incontrò per strada una bambina irlandese di
circa otto anni. Dopo qualche convenevole, le promise qualche moneta se avesse
ben recitato davanti a lui le preghiere che sapeva. Quella disse il Pater noster.
Il pastore le chiese se ne conosceva altre. E lei cominciò con l’Ave Maria. Ma
fu interrotta dal pastore: Maria è una semplice donna, bisogna pregare solo
Dio. La bambina, allora, recitò il Credo. Ma, giunta a “nato da Maria Vergine”,
si bloccò: “Eccola di nuovo”, disse, “Che ci posso fare?”. Il pastore rimase di
sasso. Lui stesso aveva ripetuto il Credo tantissime volte senza mai far caso
al fatto che al centro della fede cristiana ci fosse Lei, Maria. Da quel
momento cominciò per lui un lungo lavorio interiore che lo portò a farsi
sacerdote cattolico. E a raccontare a tutti il singolare inizio della sua
conversione.
Fonte: La Signora di tutti i Popoli e
Alessandra Viola
Le pillole miracolose della Vergine
Un giorno, come narrano i resoconti dell’epoca, il santo fra
Galvao (Brasile) si dirigeva, a piedi, da Rio a San Paolo, quando un uomo, che
soffriva di male ai reni, gli chiese di guarirlo. Sotto ispirazione della
Vergine fra Galvao scrisse su un pezzetto di carta: “Post partum, Virgo,
inviolata permansisti. Dei genitrix, intercede pro nobis” (Dopo il parto,
Vergine, permanesti inviolata. Genitrice di Dio, intercedi per noi), una frase
dell’Ufficio della Vergine. Ne fece una pallina e disse all’uomo di prenderla
come una “pillola”, recitando la preghiera. Confidando nella Madonna, l’uomo
guarì. Poco tempo dopo, il futuro santo viene in soccorso, nella stessa
maniera, di una donna con una gravidanza difficile e pericolosa. Dopo aver
inghiottito la “pillola” di Padre Galvao, la donna partorisce senza problemi.
Da allora, la sua reputazione dilaga. Ci si rivolge al
monastero. La tradizione persiste e le religiose di San Paolo continuano a
distribuire le “pillole” di carta (180.000 per settimana)
Tratto
dagli “antidoti” di Rino Cammilleri
Il Rosario di Grignon de Montfort
Missionario, Grignon de Montfort risaliva la Senna su una
imbarcazione dove si ammucchiavano almeno 200 persone, ridendo in maniera
grottesca e cantando canzoni blasfeme. Trovandosi da qualche tempo in questo
via vai di commercianti e pescatori, il signor di Montfort cominciò a collocare
il suo Crocefisso in cima al bastone. Poi, prosternandosi, gridò: “Coloro che
amano Gesù Cristo si aggiungano a me per adorarlo”. Delle scrollatine di spalle
e degli sberleffi furono la risposta. Allora, girandosi verso il fratello
Nicola: “In ginocchio, gli dice, e recitiamo il Rosario!”. Sotto una valanga di
ingiurie, i due uomini, a capo nudo, il viso raccolto e tranquillo, sgranano le
Ave Maria. Terminato il primo Rosario, il Santo si alza e con una voce dolce
invita gli astanti ad unirsi a lui per invocare Maria. Nessuno si mosse, ma le
grida cessarono quando ricominciò la preghiera. Man mano che le invocazioni
“Santa Maria, prega per noi peccatori” si succedevano, il volto del santo si
trasfigurava. Concluse le cinque nuove decine, si poteva osservare nel suo sguardo
una tale supplica e, nella sua voce tanta autorità che, quando implorò gli
astanti a recitare il terzo Rosario, tutti caddero in ginocchio e ripeterono,
docilmente, quelle soavi parole, dimenticate sin dall’infanzia. Il santo prete
poté rallegrarsi: da un teatro di oscenità, aveva creato un santuario; sulle
labbra abituate a bestemmiare, vi aveva riportato il nome di Maria.
Francois
Xavier Henry
I telegrafo a grani
Stavo pensando al telegrafo. Voi direte giustamente: perché? Non
lo so , solo mi è venuto in mente questa forma di comunicazione superata ormai
dalle nuove tecnologie, ma che alla fine del 1800 aveva rivoluzionato il modo
di comunicare.
Antenato del telefono, di internet e di tutta la comunicazione
moderna, il telegrafo funzionava secondo un sistema semplice, e quindi
abbastanza difficile da spiegare (per me che non ci capisco nulla): un trasmettitore, un impulso trasmesso via
cavo, o via onde radio, e un ricevitore che spacchetta il codice del messaggio.
I vecchi film in bianco e nero ci hanno lasciato il ricordo di questi messaggi
inviati in codice Morse, con il ronzio dei punti e delle linee e il tipo con la
cuffia tutto concentrato che digita; ai più giovani basta aver resistito almeno
una volta fino al finale del film “Titanic” di James Cameron per capire. Un
segnale per lanciare un allarme, per chiedere aiuto, per ricevere risposta e
sostegno anche a distanze enormi.
Ovviamente, siccome non sono ferrata di telegrafi, ma di cartoni
animati sì, pensando al telegrafo mi è venuta in mente quella scena de “La
carica dei 101”, quando i due dalmata si mettono alla ricerca dei loro cuccioli
rapiti da Crudelia Demon, sfruttando un sistema di comunicazione chiamato “Il
telegrafo del crepuscolo”: un cane abbaia e lancia il segnale, un altro cane lo
riceve e lo trasmette, e così altri decine di cani, fino ad arrivare alla
fattoria del Colonnello e del Sergente Tibbs, che risolvono il mistero. Una
comunicazione incessante, un lavoro continuo, che va avanti per tutta la notte
e impegna tutti i cani i Londra, dal più grande al più piccolo, ciascuno
secondo le sue possibilità.
Lo so che il paragone è azzardato, ma in fondo ho pensato che
anche le preghiera per gli altri è così: c’è un allarme che viene lanciato, un’intenzione
che viene affidata alle tue mani e a quelle di tanti altri, e tu non fai che
trasmetterla verso l’alto, senza abbaiare, ovviamente, ma sgranando il rosario,
o sgranando Ave Maria a ripetizioni, o semplicemente offrendo senza sosta tutto
quello che puoi, perché il messaggio arrivi presto. Nei momenti di maggior
difficoltà, quando qualcuno che vive un pericolo, e chiede aiuto, la preghiera
diventa più forte, il segnale si trasmette incessantemente, e risuona, sempre
con le stesse parole. Un codice di preghiere e offerte, di rinunce e doni fatti
per il bene di un altro, per la guarigione di un altro, per le intenzioni di un
altro.
A questa catena di preghiera partecipano tutti, ciascuno secondo
le sue possibilità. C’è chi ha la voce e la preghiera più forte, e chi invece
ha la voce più flebile, ma con ancora più forza lavora, e chiama e piange, e
chiede, e continua, senza stancarsi. Perché quando vedi intorno a te amici che
soffrono, o vengono portate alla tua attenzione storie di dolore di persone
che non conosci, ma che sai essere
misteriosamente unite nel cuore e nel corpo alle sofferenze di Cristo, la
preghiera diventa l’unico mezzo, per raggiungere e avvicinarsi, per conoscere e
per sostenere da lontano, per dare nuova forza ad una casa che, costruita sulla roccia o sulla sabbia, è
evidentemente scossa nelle sue fondamenta, colpita da una tempesta. Il fatto
che non crolli e si mantenga, dipende, in fondo, anche dal sostegno della
preghiera degli altri. Il nemico ti porta sempre a diffidare, e a pensarci
bene, prima di impegnarti per una persona che magari non conosci nemmeno, ma tu sai bene che la stessa attenzione, la
stessa cura, la stessa preghiera, ci sarà per te quando tu ne avrai bisogno e
la chiederai, magari con forti grida, o non la chiederai per niente, perché non hai nemmeno la forza di farlo.
È questa preghiera l’unico strumento che permette di superare i
confini dello spazio, di far avvicinare cuori lontanissimi, e unirli
nell’intento comune, nella richiesta di una grazia, che, il Vangelo ci insegna,
può essere concessa secondo la volontà di Dio - “se due di voi sopra la terra
si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve
la concederà”(Mt. 18,19) - o semplicemente per dare la forza di accettare quando
la grazia non arriva nei tempi e nei modi che vorremmo noi.
Mi sento così, in questi giorni, mentre porto nel cuore le
intenzioni di una famiglia particolarmente cara. Io non ho la voce del danese
di Hampstead che aiuta i dalmata, ma continuo, come lui a trasmettere il
messaggio, e a dire agli amici in difficoltà: “Coraggio, ricorrete al
telegrafo, siamo con voi”. E continuo, insieme agli altri compagni di
telegrafo, a restare in ascolto del
segnale… a sgranare.
Recueil
Marial (Raccolta Mariana), 1975, pag. 12
Il segreto mistico di Wojtyla: “Così parlava con la Madonna”
Karol Wojtyla fin dal momento dell’ordinazione sacerdotale
avvenuta nel 1946 ebbe esperienze mistiche e anche da Papa, pregando, “parlava”
con la Madonna e riceveva da lei messaggi. “Sapeva” in anticipo che sarebbe
avvenuta la lacrimazione della Madonnina di Civitavecchia, che considerava un
segno rivolto anche a lui, così come “sapeva” che un attentato di matrice
islamica avrebbe sprofondato il mondo nel terrore all’inizio del nuovo
millennio. Lo scrive Antonio Socci nel nuovo libro “I segreti di Karol
Wojtyla”.
Il giornalista e
scrittore, che ha già dedicato inchieste alle apparizioni di Fatima e di
Medjugorje, nonché ai segreti di Padre Pio, ha raccolto testimonianze inedite
che aprono nuovi squarci sulla vita spirituale di Giovanni Paolo II, il prete,
vescovo e Papa che in qualche modo attraversa misteriosamente tutte quelle
vicende che hanno segnato la storia della Chiesa nel secolo da poco concluso.
“Mentre pregava - spiega don Jarek Cielecki, sacerdote polacco nato nella
parrocchia di Niegowic, dove Wojtyla fu viceparroco dopo l’ordinazione - i suoi
occhi sembravano guardare qualcosa, non erano vagamente persi nel vuoto com’è
il nostro sguardo mentre preghiamo. E poi mi hanno riferito che quando
succedeva qualcosa, lui andava davanti all’altare o davanti al quadro
dell’Assunta e parlava... Proprio come se stesse parlando con una persona
presente che aveva di fronte”. Ma è dal cardinale Andrej Deskur, amico e
compagno di seminario del Papa, che arrivano le conferme più importanti: “Lui
viveva pregando. Quando stava nella cappella lo si sentiva parlare, come si
parla con un’altra persona”. Il porporato, immobilizzato dall’ottobre 1978
sulla sedia a rotelle in seguito a un ictus, ha rivelato a Socci che don
Wojtyla con l’ordinazione sacerdotale, il 1° novembre 1946, ricevette la
“preghiera infusa”. Chi ha questo dono, lascia «che lo Spirito intervenendo ti
guidi... Con apparizioni o con locuzioni interiori. Da questa intimità con Dio
si dipana tutto”. Mentre un altro prelato, in colloquio, ebbe a dire: “Sappiamo
bene che la Madonna parla al Papa anche se lui non va a dirlo in giro... Lui obbedisce
solo alla Madonna, fa solo quello che gli dice lei”. Un giorno - scrive Socci -
il cardinale Deskur andò in Portogallo e visitò suor Lucia di Fatima. Alla fine
del colloquio chiese se doveva portare un messaggio al Santo Padre da parte
della Madonna. Suor Lucia rispose: “No, no, ci penserà la Madonna stessa...”.
Il segretario di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, oggi cardinale, ha
scritto che quando pregava il Papa “dava l’impressione che stesse parlando con
l’Invisibile”. Mentre Benedetto XVI, l’anno scorso, in occasione del terzo
anniversario della morte di Wojtyla, nel corso dell’omelia disse che il
predecessore “nutriva una fede straordinaria in Cristo risorto e con Lui
intratteneva una conversazione intima, singolare e ininterrotta. Tra le tante
qualità umane e soprannaturali aveva infatti anche quella di un’eccezionale
sensibilità spirituale e mistica”. “Parlava” con Gesù e la Madonna. Aveva
intrattenuto un rapporto mistico con Padre Pio, dopo quell’unico incontro
avvenuto a San Giovanni Rotondo nella Pasqua del 1948, che Wojtyla definirà
“primo” e “più importante incontro”, nonostante non si sia mai più recato dal
frate stimmatizzato prima della sua morte avvenuta nel 1968: un particolare che
secondo Socci lascia intravedere la possibilità di altri “incontri” tra i due,
ma di tipo mistico. Alla luce di queste e molte altre testimonianze, l’autore
presenta il pontificato wojtyliano inserendolo nella grande lotta tra Maria,
“la Donna” dell’Apocalisse, e il “drago”, cioè Satana. Una lotta che ha visto
il ruolo decisivo del primo Papa slavo nella caduta incruenta del comunismo e
nell’aver scongiurato, grazie alla Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria
richiesto dall’apparizione a Fatima, una catastrofe nucleare a metà degli anni
Ottanta. Una lotta che, si legge nell’ultimo capitolo del libro, non è finita,
ma continua. E la stessa minaccia nucleare o batteriologica, scrive Socci, è
forse più incombente oggi che durante la Guerra fredda. Anche per questo
Wojtyla, nell’agosto 1997, dopo essere stato intravisto da un collaboratore
mentre pregava disteso a terra e circondato da una strana luce soprannaturale,
gli disse: “Se sapessi quello che so io anche tu passeresti la notte a pregare
con me”.
Antonio Socci nel suo
libro. Il Papa riceveva anche messaggi dalla Vergine.
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