Maria



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MARIA ASSUNTA IN CIELO

La parabola della sua breve vita non poteva che concludersi così. Quel figlio che aveva accolto senza riserve, che aveva portato in grembo e che amò più della sua stessa vita, tenne spalancati per lei i cieli che aveva da poco attraversato. Bello. Bello e stupendamente umano. Più forte della morte è l’ amore, le grandi acque non lo possono spegnere. Maria gli era stata accanto sempre. Ne aveva condiviso gioie e dolori; sofferenze e incomprensioni; preghiera e doni dello Spirito. Con lui aveva imparato a scrutare il cuore e a interrogare l’ anima perché in tutto fosse glorificato Iddio. Quando venne la sua ora, lungo la via dolorosa, gli cammina accanto, gli asciuga il volto coi suoi capelli, gli sussurra parole di conforto, sostiene la sua fede: « Figlio! Figlio del cuore mio. Avanza, non temere, pur se non lo senti il Padre ti sta accanto … Vengo con te sul monte. La morte più non temo. Figlio che facesti il bene … Appoggiati alla spalla della tua mamma bella …». Lui, il Signore della vita e della morte, non parla. Non ce la fa. Barcolla. Inciampa. Cade nella polvere che gli soffoca la gola. Lui, nel suo cuore, spera che vada via, che non giunga al Golgota. In quegli occhi limpidissimi sente di affogare. Il dolore è al limite di ogni sopportazione, sapere che anche la sua mamma lo sta soffrendo glielo rende disumano. Lei, invece, resta. Ferma. Immobile. Con il cuore a lutto e gli occhi senza lacrime. Chiama a raccolta le sue forze, tenta di apparire forte, sicura, determinata. Non va via nemmeno quando glielo metteranno in croce, quel figlio unico e immensamente amato. Momenti di strazio indicibili che nessuno potrà raccontare mai. Solo le mamme che, anche ai nostri giorni, hanno visto i loro figli crocifissi, decapitati, sepolti vivi possono comprendere. Fu forte fino al momento in cui suo figlio ebbe bisogno della sua forza. Poi crollò. Cadde esausta appena dalla croce Gesù emise l’ ultimo respiro. Nel silenzio pesante di quella sera che non avrà uguali nella storia, asciugò le sue mani bagnate dal sangue di suo figlio e ripose il panno prezioso in un cassetto. Poi fece forza ai discepoli impauriti, avviliti, scoraggiati. Con lei c’erano le amiche di sempre e Giovanni, il ragazzino. Il tempo sembrò fermarsi quella notte. L’ intima certezza che qualcosa stava per accadere, però, non la lasciò nemmeno un istante solo. Che cosa non avrebbe saputo dire. Si immerse nella preghiera. A vederla, muta, immobile, sembrava essersi assopita. Suo figlio era morto. Ricordò le parole che il vecchio Simeone le rivolse tanti anni prima: « E anche a te una spada trafiggerà l’ anima …». Non le aveva mai dimenticate anche se mai le aveva comprese appieno. Quel momento era venuto. Gemeva, soffriva, sanguinava, eppure, stranamente, si sentiva invasa da una dolcezza senza fine. Una dolcezza misteriosa e vera. Avvertiva un soffio leggero che le sfiorava i capelli e le donava forza. Sprofondò nella contemplazione dell’ Eterno Padre e del Figlio. Di quel figlio del Padre che era anche figlio suo. Tutta la sua vita era avvolta nel mistero. Di quel mistero viveva, in quel mistero riposava. E adesso? Che cosa sarebbe accaduto? Quella notte non dormì, Maria. Con gli spalancati e stanchi continuava a pregare. Poi. Successe tutto all’ improvviso. C’era scompiglio la mattina di quel giorno dopo il sabato. Le voci concitate delle amiche si accavallavano nel tentare di raccontare l’ incredibile scoperta. Grida di gioia, di stupore. A tratti di paura. Recatesi al giardino alle prime ore dell’ alba, avevano trovato il sepolcro aperto e vuoto. Gesù non c’era. Che cosa era accaduto? Qualcuno ne aveva rubato il corpo? Maria ebbe l’ intima certezza che suo figlio era risorto. Alla velocità del lampo le riaffiorarono alla mente le sue parole, ascoltate e meditate tante volte. La morte non poteva tenere prigioniero il Signore della vita. Credette che stesse per scoppiarle il cuore. Allora cominciò a cantare. Cantava e danzava. Pregava e cantava. Danzava e lodava. E quel figlio che aveva amato più della sua stessa vita l’ avvolse in un abbraccio e la portò con sé. Fu assunta in cielo in anima e corpo. Come e quando avvenne a nessuno è dato sapere con certezza. Ma poco importa. Gesù è risorto, Maria è assunta in cielo. Ancora e per sempre insieme. E noi con loro. E sono nostri, ci appartengono. Ci proteggono. Ci amano. Madre di Dio e madre nostra, da lassù non ha mai smesso di intercedere per questa nostra bella e tormentata umanità che lotta contro le insidie degli egoismi che ci avvelenano e dell’ orgoglio che ci gonfia. A te, Madre assunta in cielo, affidiamo gli uomini che in tante parti del mondo soffrono e muoiono per le ingiustizie e le ingordigie di altri uomini, loro fratelli in umanità. In modo particolare ti affidiamo i bambini e le donne più indifesi e fragili. Mettiamo nel tuo cuore papa Francesco, la santa Chiesa, l’ umanità intera. Ti chiediamo il dono della pace. Benedetta sei tu, Maria, fra tutte le donne e benedetto il frutto del tuo grembo: Gesù.

                                                                                                         Padre Maurizio Patriciello

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COME MARIA

A volte basta un raggio di sole

Una notte ho fatto un sogno splendido. Vidi una strada lunga, una strada che si snodava dalla terra e saliva su nell'aria, fino a perdersi tra le nuvole, diretta in cielo. Ma non era una strada comoda, anzi era una strada piena di ostacoli, cosparsa di chiodi arrugginiti, pietre taglienti e appuntite, pezzi di vetro. La gente camminava su quella strada a piedi scalzi. I chiodi si conficcavano nella carne, molti avevano i piedi sanguinanti. Le persone però non desistevano: volevano arrivare in cielo. Ma ogni passo costava sofferenza e il cammino era lento e penoso. Ma poi, nel mio sogno, vidi Gesù che avanzava. Era anche lui a piedi scalzi. Camminava lentamente, ma in modo risoluto. E neppure una volta si ferì i piedi.
Gesù saliva e saliva. Finalmente giunse al cielo e là si sedette su un grande trono dorato. Guardava in giù, verso quelli che si sforzavano di salire. Con lo sguardo e i gesti li incoraggiava. Subito dopo di lui, avanzava Maria, la sua mamma. Maria camminava ancora più veloce di Gesù.
Sapete perché? Metteva i suoi piedi nelle impronte lasciate da Gesù. Così arrivò presto accanto a suo Figlio, che la fece sedere su una grande poltrona alla sua destra.
Anche Maria si mise ad incoraggiare quelli che stavano salendo e invitava anche loro a camminare nelle orme lasciate da Gesù, come aveva fatto lei.
Gli uomini più saggi facevano proprio così e procedevano spediti verso il cielo. Gli altri si lamentavano per le ferite, si fermavano spesso, qualche volta desistevano del tutto e si accasciavano sul bordo della strada sopraffatti dalla tristezza.
Una mattina un professore di cardiologia condusse gli alunni al laboratorio di anatomia umana dell'Università. Stavano osservando alcuni organi, quando notarono un cuore smisuratamente grande. Il professore chiese ai ragazzi se sapevano dire a chi fosse appartenuto, intendendo quale malattia avesse causato la morte di quella persona.
"Io lo so" disse un ragazzo, in tono molto serio. "Era il cuore di una madre".
                                                                                  (racconto Bruno Ferrero)


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Ave Maria


Dopo quel fatto della ragazza madre uccisa nell’ accampamento tuareg perché colta in adulterio, i miei rapporti con Maria di Nazareth divennero molto più intimi. Fu come se improvvisamente mi diventasse sorella. Non ero stato abituato a vederla così vicina, così umana, così fragile. Il culto aveva sviluppato, sì, un certo tipo di rapporto soprannaturale, ma aveva soffocato la sua voce di donna, di creatura, di sorella, di maestra che accanto a me mi poteva ancora dire qualcosa. Sì, lo devo confessare con umiltà, quando riuscii ad accostare quella tragedia, consumata nel silenzio di una sperduta vallata dell’Hoggar, al Vangelo di Luca compresi in pieno il coraggio di Maria nell’accettare la richiesta dell’ Angelo e il disegno di Dio su di Lei. Doveva accettare il ruolo di ragazza madre. Chi avrebbe creduto a L Chi avrebbe accettato il discorso di una ragazzetta che in casa viene a dirmi: “Sai... questo bimbo che ho nel ventre è il figlio dell’Altissimo!”. A casa mia avrebbe per lo meno ricevuto uno schiaffo da mio padre, ed eravamo in Piemonte; a casa di qualche famiglia più verso il sud si sarebbe sentita dire: “Vattene e non vogliamo più vederti perché hai disonorato la famiglia”. In qualche casa araba o scita o ebrea dei tempi passati... sarebbe corso il sangue. aria, nella fede, ebbe il coraggio di confidare nel Dio dell’impossibile e di lasciare a Lui la soluzione dei suoi problemi: la sua era fede pura. u una scoperta dolcissima la mia, fatta in un ambiente stupendo come il deserto e... quel deserto! Non dimentichiamolo: la Bibbia fu scritta proprio in quel terreno tra il deserto e la steppa dove vivono le carovane, brucano gli asini e le pecore e gli uomini sanno interrogare il cielo perché è l’unica speranza di vita. Ed anche io ero là. Quando la sera preparavo l’accampamento sul bordo della pista ed accendevo il fuoco per far cuocere il pane e far bollire il tè, Maria mi veniva vicina. Bastava che tirassi fuori il Rosario che mi ero costruito con grani di legno raccolti nell’oued di Issakarassem e che tenevo sempre in tasca, perché sentissi la Sua presenza accanto al fuoco. Il deserto è tutta una chiesa con il cielo stellato come volta e la sabbia fine e calda come stuoia su cui sedersi a pregare. Che dolcezza perdere la nozione del tempo e dello spazio e vivere la comunione coi santi come dolce realtà. Sono venuto nel deserto proprio per questo. Volevo rompere la frontiera tra il visibile e l’invisibile, tra il Cielo e la Terra e nella fede sovente ci sono riuscito. Che pace andare al di là delle cose! Vivere come se il Vangelo fosse scritto ora, vissuto ora. Vedere il segno delle cose di Dio rompersi per mostrarti l’invisibile Sua presenza, la Sua realtà divina. Poter parlare con i santi. Fare esperienza della Presenza Eucaristica sotto la tenda trasformata in Tabernacolo. Una sera tentai il discorso con Maria. Mi era così facile! Le volevo così bene!
Maria, dimmi come è andata? Raccontalo a me come l’hai raccontato a Luca l’evangelista. Tu lo sai, mi disse, perché conosci il Vangelo. È stato tutto molto bello!
“lo vivevo a Nazareth in Galilea e la mia vita era la vita di tutte le ragazze del popolo: lavoro, preghiera, povertà, molta povertà, gioia di vivere e soprattutto speranza nelle sorti di Israele. Abitavo con Anna, mia madre, in una casetta molto semplice che aveva un cortile davanti ed un gran muro di cinta fatto apposta perché noi donne ci sentissimo in libertà ed intimità. Lì sostavo sovente per lavorare e pregare. In me l’una e l’altra cosa si mescolavano ed ero piena di pace e di gioia. Quel giorno ero sola nel piccolo cortile e una gran luce mi avvolgeva. Pregavo, seduta su uno sgabello. Tenevo gli occhi socchiusi e sentivo una gioia invadermi tutta. La luce aumentava ed io incominciai a socchiudere le palpebre che avevo chiuso per non restare abbacinata. Ero contenta di lasciarmi riempire di quella luce. Mi pareva il segno della presenza di Dio che mi avvolgeva come un manto. Ad un tratto quella luce prese l'aspetto di un Angelo. Ho sempre pensato agli Angeli così come lo vidi in quel momento. Tu sai come è la questione della fede. Non sai mai se la visione è dentro o fuori. È certamente dentro perché se fosse solo fuori potresti dubitare come fosse una illusione. Ma dentro l’illusione non c’è, è così, sai che è così: ne è testimone Dio. lo stavo molto ferma per paura che tutto scomparisse. E invece l’Angelo parlò. Anche qui: non sai mai se la voce la senti nell’orecchio o più in profondo. Certamente in profondo perché se fosse solo nell’orecchio potresti illuderti. La voce la senti là dove lo stesso Dio è il testimone”.
E che ti disse?
“Mi disse: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con Te”.
E Tu che provasti?
“È evidente che ne fui turbata. Era come se fossi visitata da cose troppo grandi per me e per la mia dimensione così piccola. Tu puoi pensare alle cose di Dio con immenso desiderio ma quando ti toccano non puoi non spaventarti. Difatti mi disse subito: “Non temere, Maria”. Mi feci coraggio perché la stessa frase l’avevo sentita alla Sinagoga quando si leggeva la storia di Abramo. !Non temere, Abramo. lo sono il tuo scudo”. Poi l’Angelo mi diede l’annuncio della maternità con poche parole ma così chiare che avevo l’impressione mi stessero nascendo dentro. Non mi era mai capitato di sentire parole come fossero avvenimenti”.
Dimmi, Maria, sei stata colta di sorpresa? Non avevi mai pensato prima che Tu... proprio Tu...
”Oh sì! Ci avevo pensato. Noi ragazze ebree non pensavamo ad altro. Sentivamo che i tempi erano quelli e quando pregavamo nella Sinagoga l’aria era satura di attesa del Messia”.
Che hai capito quando l’Angelo ti disse che eri Tu la scelta e che il Messia sarebbe nato da Te?
“Capii esattamente cosa voleva dirmi, e rimasi soltanto stupita della straordinarietà della cosa. Come era possibile se io ero vergine? L’Angelo mi spiegò le cose e mi fu facile accettarle perché mi sentivo immersa in Dio come in quella luce vivissima del mezzogiorno. Confusamente capii anche che pasticci ce ne sarebbero stati, che non sarei riuscita a spiegarmi con mia madre, specialmente col mio fidanzato Giuseppe, ma non avrei potuto fermarmi tanta era forte la presa di Dio su di me e tanta era la certezza che mi veniva dalle parole dell’Angelo: “Nulla è impossibile a Dio”. Adagio, adagio la luce diminuì e non vidi più l’Angelo. Vidi mia madre Anna attraversare il cortile e mi venne voglia di parlarle, ma non ne fui capace perché non trovai le parole adatte. Capii subito che non c’erano parole con cui potevo spiegare le cose. Così nei giorni che seguirono, anzi, più andavo avanti e più diventavo silenziosa. Fu più difficile il discorso con Giuseppe, mio fidanzato. Tu sai come avvenivano le cose nelle nostre tribù. La sposa veniva promessa molto presto. Era come un patto tra famiglie. Ma essendo così giovane la futura sposa continuava a vivere in famiglia in attesa della maturità. Allora con grande festa, di notte, si compiva lo sposalizio e lo sposo accompagnato dai suoi amici veniva con tante luci e canti e gioia a prendere la sua sposa ed a condurla a casa. Da quel momento si era veramente sposati. Quando l’Angelo mi apparve per annunciarmi la maternità, io ero ancora in casa. Ero stata promessa a Giuseppe ma non ero ancora andata ad abitare con lui. Bastarono pochi mesi perché tutto divenisse complicato agli occhi degli uomini. lo non potevo nascondere la mia maternità e il mio ventre mi denunciava. Capii allora cos’ era la fede oscura, dolorosa. Come potevo spiegarmi con mia madre? Come potevo discutere col mio fidanzato Giuseppe? Vissi tempi veramente dolorosi e l’unico conforto mi veniva nel ripetere: “Tutto è possibile a Dio”. Toccava a Lui spiegarsi ed io avevo tanta confidenza. Ma ciò non toglieva la mia sofferenza che in certi momenti mi straziava l’anima. Come potevo trovare le parole per dire che quel bimbo che portavo in seno era il figlio dell’Altissimo? Intanto non osavo più uscire di casa ed una volta vidi una vicina guardarmi da sopra il muro del cortile con evidente attenzione puritana. Ci furono dei momenti terribili ed io tremai al pensiero di essere denunziata come adultera. Ci voleva così poco. Bastava che Giuseppe andasse alla Sinagoga a spiegare la cosa e non gli sarebbero mancati gli zelanti che l’avrebbero seguito con le pietre per lapidarmi. Non era la prima volta che a Nazareth veniva uccisa un’adultera. Ma è vero: “Dio può tutto”. E si spiegò Lui. Si spiegò con Giuseppe per primo che mi disse di avere avuto un sogno veramente straordinario e che non aveva perduto la confidenza in me e che mi avrebbe sposata lo stesso. Che gioia quando me lo disse! Ma che paura avevo provato! Che oscurità! Sì, il fatto mi aveva spiegato che la fede è di quella natura e che dobbiamo abituarci a vivere nell’oscurità. Ci fu anche un fatto straordinario che alleviò le mie pene in quei mesi. Tu sai che l’Angelo mi aveva dato un segno per aiutare la mia debolezza. Mi aveva detto che mia cugina Elisabetta era al sesto mese di una maternità straordinaria perché tutti noi della famiglia sapevamo che era sterile. Dovevo andare a trovarla in Giudea ad Ain-Karim dove abitava. Non mi feci pregare a partire. L’idea venne a mia madre perché era preoccupata che la gente del paese mi vedesse con quel ventre grosso e non voleva dicerie. Partii di notte, ma così contenta di allontanarmi da Nazareth dove c’erano troppi occhi indiscreti e non potevo raccontare a tutti le mie faccende. Trovai mia cugina già vicina al parto e così felice, poverina! Aveva aspettato tanto un figlio! Il Signore si era spiegato anche perché quando giunsi fu come se sapesse tutto! Tutto! Tutto! Si mise a cantare per la gioia ed io cantavo con lei. Sembravamo due pazze, ma pazze di amore. E c’era un terzo che sembrava impazzito di gioia. Era il piccolino, il futuro Giovanni che danzava nel ventre di Elisabetta come per fare festa a Gesù che era nel mio. Furono giorni indimenticabili. Ma Elisabetta, che se ne intendeva di fede e di fede oscura e che aveva tanto sofferto nella vita, mi disse una cosa che mi fece piacere e che fu Come il premio a tutta la mia solitudine di quei mesi. “Beata te che hai creduto”. E me lo ripeteva tutte le volte che mi incontrava e mi toccava il ventre, come per toccare Gesù, il nuovo Mosè che stava per venire al mondo”.
Il fuoco con cui avevo cotto il pane si stava spegnendo. La notte era già alta e mi sentii solo. La presenza di Maria ora era nel Rosario che avevo in mano e che mi invitava a pregare. Sentivo freddo e mi avvolsi nel “bournous” (mantello arabo di lana di pecora) che avevo con me. L’oscurità divenne totale ma non avevo nessuna voglia di addormentarmi. Volevo gustare la meditazione che Maria mi aveva regalata. Soprattutto volevo entrare con dolcezza e forza nel mistero della fede, la vera, quella dolorosa, oscura, arida. Oh no! Non è facile credere, è più facile ragionare. Non è facile accettare il mistero che ti supera sempre e che ti allarga sempre i limiti della tua povertà. Povera Maria! Dover credere che quel bimbo che portava in seno era figlio dell’Altissimo. Sì, è stato semplice concepirlo nella carne, estremamente più impegnativo concepirlo nella fede! Quale cammino! Eppure non ne esiste un altro. Nori c’è altra scelta. Vuoi Tu, Maria, spaventata dal credere, tornare indietro, pensare che non è vero, che è inutile tentare, che è una illusione quella di un Dio che si fa uomo, che non c’è Messia di salvezza, che tutto è un caos, che sul mondo domina l’irrazionale, che sarà la morte a vincere sul traguardo e non la vita? No! Se credere è difficile, non credere è morte certa. Se sperare contro ogni speranza è eroico, il non sperare è angoscia mortale. Se amare ti costa il sangue, non amare è inferno. Credo, Signore! Credo perché voglio vivere. Credo perché voglio salvare qualcuno che affoga: il mio popolo. Credo perché quella del credere è l’unica risposta degna di te che sei il Trascendente, l’Infinito, il Creatore, la Salvezza, la Vita, la Luce, l’Amore, il Tutto. Che cosa strana per non dire meravigliosa: appena ho detto con tutte le viscere la parola “credo”, ho visto la notte farsi chiara. Ora chiudo gli occhi perché è proprio Lei, la notte che mi abbaglia con la Sua luce al di là di ogni luce. Sì, nulla è più chiaro di questa notte oscura, nulla è più visibile dell’invisibile Dio, nulla è più vicino di questo infinitamente lontano, nulla è più piccolo di questo infinito Iddio. Difatti è riuscito a stare nel Tuo piccolo seno di donna, Maria, e Tu l’hai potuto scaldare col Tuo corpicino bello. Maria! Sorella mia! Beata te che hai creduto, ti dico stasera con entusiasmo, come te lo disse tua cugina Elisabetta, in quel vespro caldo ad AinKarim.

                                                                                                                 fratel Carlo Carretto
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Gastone il centurione

Gastone era un centurione e ormai da 30 anni si trovava alle dipendenze di Pilato. Di condannati ne aveva visti tanti, ma nessuno come questo Galileo. “Con tutte le torture che gli sono state fatte dovrebbe essere già morto... e invece mantiene sempre la calma, pur tra inaudite sofferenze... e poi... mi ricorda qualcuno...”. Intanto Gesù fu caricato della croce e il triste corteo si avviò verso il Calvario. Ad un tratto lungo la strada apparve una Donna. “È la madre del condannato”, sussurrò qualcuno. Gastone si voltò ed ebbe un sussulto: come un lampo il passato gli tornò davanti agli occhi. Era un giovane soldato, appena giunto dall’Italia, quando venne mandato con dei colleghi in Galilea a causa di una sommossa. Come gli altri soldati era un prepotente: entrava nei villaggi e saccheggiava le case senza aver rispetto per nessuno. Un giorno la sua guarnigione rimase senza viveri e i soldati decisero di prendere con la violenza un po’ di provviste. Gridando e schiamazzando misero in subbuglio il paesino di Nazareth: le urla delle donne e il pianto dei bambini, invece di impietosirli, li facevano divertire. Mancava ancora una casetta: Gastone fu il primo ad entrare; ma si fermò di colpo. All’interno non c’era niente di strano: solo una donna con un bambino; eppure l’atmosfera era talmente soprannaturale che i soldati entrando rimanevano ammutoliti. Gastone una volta aveva visto da vicino Cesare, eppure da quei due si irradiava una maestà ben superiore a quella dell’imperatore. Con una voce dolcissima e molto calma la Signora domandò: “Avete bisogno di qualcosa?”. I soldati si guardavano imbarazzati. Gastone si fece coraggio e rispose: “Avremmo bisogno di un po’ di cibo, ma non vorremmo essere di disturbo...”. La Donna si rivolse al bambino: “Gesù, vai a prendere un po’ di provviste”. Il bambino subito si alzò e corse in dispensa. Quando tornò aiutò la Mamma a preparare tanti fagottini quanti erano i soldati. Infine, la Donna distribuì le provviste a ciascuno di loro. Pur essendo molto giovane, tutti ebbero l’impressione di trovarsi di fronte alla propria madre. Gastone non aveva più dimenticato quello sguardo e adesso era sicuro di riconoscerlo in quella Donna. “Il condannato dev’essere quel bambino!”. Era la prima volta che provava compassione per un condannato. Un pensiero gli si affacciò alla mente: “Quest’uomo ha affermato di essere Figlio di Dio... E se fosse vero?”. La Donna intanto seguiva il Figlio con una compostezza e una dignità che ferivano profondamente il cuore del buon centurione. Arrivarono sul Calvario e dopo tre ore di tremenda agonia, alla morte di Gesù Gastone cadde in ginocchio ed esclamò: “Costui era veramente Figlio di Dio!”, e così dicendo gli tornarono alla mente le Sue ultime parole: “Donna, ecco tuo Figlio”: solo allora capì che si trattava di una Maternità universale ed ebbe un sussulto: era proprio questa l’impressione che aveva avuto quando aveva visto la Donna per la prima volta.
                                                                                              (Enrico Salomi, mensile Il Timone)


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La storia di un uomo che voleva dannarsi ma non aveva fatto i conti con la Madonna

 C’era anticamente un uomo il quale si voleva dannare. Non dico che si fosse proprio proposto di andare all’inferno: dico che si era messo per una strada da finire in quel brutto posto. Da buon cristiano qual era stato in principio, si era a poco a poco voltato al male, e, facendo un giorno peggio dell’altro, dì cristiano non aveva ormai più che il Battesimo. Niente più Messe (figurarsi le funzioni), né per Pasqua né per Natale, niente più prediche né Vangeli, niente più Confessioni né Comunioni, niente più Vigilie né Quaresime né Quattro Tempora, niente più devozioni, niente più preghiere, e al posto di tutto questo tutti e sette i vizi del Catechismo... Dite se non è questa la strada che mena alla dannazione. Vero è che per dannarsi bisogna fare i conti con la Madonna, vale a dire con una mamma. La mamma! Io mi ricordo di quando ero piccino e, qualche volta, per un capriccio, per rabbia che essa mi avesse tirato via da un pericolo, levato di mano un vetro o un coltello, raccattavo un sasso o un bacchetto e facevo l’atto di andarle contro per picchiarla. Nel muovermi inciampicavo, andavo in terra, piangevo, e mamma lesta a rizzarmi, pigliarmi in collo, baciarmi, picchiare e chiamare brutto, cattivo, il sasso o il bacchetto che mi aveva fatto cascare, che aveva fatto cascare il suo bambino tanto buono... La Madonna è una mamma. L’unica cosa di cui non si fosse proprio del tutto scordato, quest’uomo che si ricordava di Dio e dei santi soltanto per bestemmiarli, era giustappunto la Madonna. A volerle bene e a pregarla in modo speciale lo aveva avvezzato fin da piccino la sua mamma, ripetendogli di continuo, e con discorsi e con esempi, che non sarebbe finito del tutto a male chi si fosse mantenuto in qualche maniera devoto della Madonna. La Madonna, infatti è la porta del Paradiso, è il rifugio dei peccatori, è la nostra avvocata, e il tale per aver detto così, e la tale per aver fatto in quel modo, e i tali perché so io, s’erano tutti salvati... Un po’ per il ricordo della sua mamma, un po’ perché le cose imparate da piccini è difficile che qualche cosa non lascino, questo pover uomo, mentre faceva di tutto per andare all’inferno, pregava ancora la Madonna e teneva la sua immagine a capo del letto. La pregava a quel modo. Il Rosario, che la Madonna ha tanto gusto a sentirselo dire, nemmeno si ricordava che cosa fosse; aveva a poco a poco dimenticato le Litanie, la Salve Regina; non sapeva più che l’ Ave Maria, e due o tre Ave Maria borbottate fra lo svestirsi e l’addormentarsi, ogni sera, erano tutte le sue devozioni... Arrivò al punto, camminando sempre per quella strada sciagurata, di scordare anche quella, e della Madonna non gli rimase che il nome, Maria, forse perché era scritto ai piedi della sua immagine, che gli pendeva sopra il letto... Se fosse stato meno duro, avrebbe sentito, da quell’immagine, le lacrime gocciargli sul viso, mentre dormiva. La Madonna piangeva su quel figliolo che le tornava ogni notte con l’anima sempre più nera, col cuore sempre più chiuso alle Sue ispirazioni, ai Suoi amorosi rimproveri; e vegliandolo, come una mamma il suo piccino malato, perché la morte non lo venisse a pigliare mentre era così in disgrazia di Dio, pregava, diceva per lui le devozioni, il Confiteor, l’Atto di contrizione. Ma, se la Madonna piangeva, nemmeno lui, il figliol prodigo, era contento. Eh, no, alla tavola del diavolo la vera allegrezza non si trova, per quanto possano sul principio parer dolci i suoi vini. È la dolcezza del veleno, che si converte in amarezza appena dal palato è disceso in corpo. Se tanti, purtroppo, seguitano e seguitano a bere, è perché il diavolo li ha ormai ubriacati e credono che il rimedio consista nel bere ancora dell’altro, finché tanto ne bevono che finiscono per scoppiare. Se avesse dato retta ai rimorsi che sentiva in sé dopo ogni stravizio; se avesse ascoltato il cuore che gli metteva a confronto il suo stato d’ora (dico quanto a esser contento) col suo stato di prima, di quando andava alla Messa, alle funzioni, alle prediche, di quando si confessava e comunicava, diceva il Rosario e le devozioni, di quando insomma era un buon cristiano, l’uomo si sarebbe forse ravvisto, e la Madonna avrebbe cessato di versare quelle Sue lacrime di mamma, di cui il demonio rideva. Invece, per acchetare i rimorsi, per non sentir quei paragoni, egli si buttava da un peccato in un altro, da uno stravizio in uno stravizio peggiore, e la morte intanto si avvicinava. Anche il pozzo dei peccati però ha un fondo, dopo il quale non c’è che tornare a galla o sprofondar senza rimedio in casa del diavolo. Che Dio ci guardi dall’arrivare a quel limite; e se per disgrazia ci si arrivasse, ci guardi almeno dalla disperazione di salvarci, che sarebbe uno dei peccati contro lo Spirito Santo, il peccato che condusse Giuda a impiccarsi quando ancora poteva chieder perdono a Gesù! Se non era ancora arrivato a questo, l’uomo si trovava già coi piedi sulla botola dell’inferno. La disperazione era prossima, e si sarebbe buttato ormai allo sbaraglio se non era... Eh, chi poteva essere se non quella santissima Vergine, cui egli non alzava più neppure uno sguardo, ne pronunziava appena il nome, Maria, con quella stessa bocca con cui aveva per tutto il giorno bestemmiato il Suo Figliolo e i Suoi Santi? Fatto sta che una notte, dopo essersi involtolato nel male più di un rospo nella belletta di un pantano, rientrò in casa, cotto dal vino, rovinato dal gioco, con un gran disgusto di sé, con la disperazione nel cuore e la tentazione di ammazzarsi. Figuratevi se pensò a dire le devozioni! Nell’atto però di cominciare a svestirsi, alzò, per caso o per abitudine, gli occhi all’immagine sopra il letto e cercò la parola, il nome, le cinque lettere a cui s’era ridotta la sua preghiera, la sua fede, la sua speranza: Maria. Ma gli occhi, disorientati forse dal vino?, videro in altro ordine le cinque note che suonarono tanto dolci in bocca all’Arcangelo Gabriele, e lessero, invece di Maria: Riama. Provvido errore, se fu errore! Al suo spirito, che, incerto fra la morte e la vita, riluttante a quella per il disgusto e a questa per il terrore, si chiedeva gemendo che cosa fare, quella parola, quel nome invertito fu la risposta, la risposta illuminante, consolante, acquietante: Riama. Riama: ama di nuovo, ama come una volta, come quand'eri bambino, come quando dicevi le devozioni... E le antiche devozioni rifiorirono come per miracolo prima nel cuore e poi sui labbri bruciati dalla bestemmia: Ave, Maria, gratia plena... Piegato a terra da una forza dolce e invisibile, l’uomo abbandonò fra le mani il viso sulla sponda del letto, sotto l’immagine, e pianse, e pianse, e pianse. E la Madonna cessò di piangere; la Madonna sorrise, perché quel suo figliolo era salvo.
                                                                Andrea Tornelli, da Il Giornale, 17 giugno 2009


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Padre Giuseppe Santarelli spiega la “Casa della Madonna” a Loreto

L’8 settembre la Chiesa ha celebrato la festa liturgica della Natività di Maria. In Italia, la festa prende particolare significato al Santuario di Loreto, in provincia di Ancona, dove si trova la “Casa della Madonna”, cioè una piccola costruzione che, secondo la tradizione, sarebbe stata l’abitazione, a Nazaret, in Palestina, dei genitori di Maria, nella quale quindi la Vergine Santissima sarebbe nata e cresciuta. Quella casetta, oggetto di grandissima venerazione fin dall’inizio della storia cristiana, nel 1291 scomparve all’improvviso da Nazaret per apparire, alcuni anni dopo, sulle colline di Loreto, dove ancora si trova. Il fatto suscitò naturalmente stupore. Si verificarono subito prodigi di ogni genere, miracoli, guarigioni, conversioni, che fecero pensare come quella piccola e misteriosa costruzione avesse poteri soprannaturali. In seguito si seppe che quella casetta un tempo era a Nazaret. Non trovando spiegazioni di come potesse essere arrivata a Loreto, si pensò che fosse stata trasportata dagli Angeli. Comunque, la devozione divenne subito grandissima. Per proteggere la casetta venne costruito un santuario meraviglioso, che divenne uno dei più celebri d’Europa, visitato da innumerevoli devoti. Nel corso dei secoli, perfino 13 Papi si recarono in pellegrinaggio a Loreto, ultimo Benedetto XVI nel 2007. Giovanni Paolo II vi si recò quattro volte. Negli annali del Santuario si ricordano i nomi di parecchie persone che in vita furono pellegrine a Loreto e che, dopo la loro morte, vennero proclamate sante. Figurano anche i nomi di innumerevoli celebrità laiche, quali Cristoforo Colombo, Galileo Galilei, Vittorio Alfieri, Torquato Tasso, Mozart, Goldoni, Giosuè Carducci, Gabriele D’Annunzio. Michel Montaigne, il filosofo e politico francese, si recò in pellegrinaggio a Loreto nel 1580 per ringraziare la Madonna di una grazia che aveva ricevuto per sua figlia Eleonora. Cartesio, il filosofo francese del “Cogito ergo sum”, vi andò per sciogliere un voto e fece la strada a piedi da Venezia a Loreto. Grande, quindi, fu sempre la devozione della gente per questo Santuario nel quale si conserva la “Casa natale della Madre Dio”. Ma questa espressione “casa natale della Madre di Dio”, quale valore ha? È frutto solo di una “pia tradizione”, di una “fede popolare”, o poggia su ragioni più concrete, su documentazioni scientifiche? È un interrogativo che si presenta spontaneo, soprattutto all’uomo d'oggi, imbevuto di scetticismo. Interrogativo, però, che da parte degli studiosi riceve   risposte scientifiche incredibilmente sconcertanti.
“La storia racconta che la casa apparve all’improvviso in questo luogo la notte tra il 9 e il 10 dicembre 1294”, dice padre Giuseppe Santarelli, direttore dell’ente che ha lo scopo di diffondere il culto mariano e di curare la promozione e il decoro artistico del Santuario. “Che sia stata trasportata dagli Angeli non lo possiamo dimostrare scientificamente. Invece, oggi, dopo anni di studi, di analisi, di ricerche archeologiche compiute con i mezzi più sofisticati, siamo in grado di affermare categoricamente che questa casetta è proprio quella che fino verso la fine del tredicesimo secolo era venerata a Nazaret come la Casa della Madonna”. Padre Giuseppe Santarelli è un religioso cappuccino, ma è anche un famoso uomo di scienza. Storico e archeologo di fama internazionale, ha dedicato gran parte della sua vita a organizzare, in collaborazione con altri celebri scienziati, ricerche sull’origine della misteriosa casetta. Le sue numerose pubblicazioni sull’argomento fanno storia. E i dati scientifici che fornisce sono veramente impressionanti e fanno capire come la fede “semplice” dei nostri avi riguardo “la casa della Madonna” poggiasse su basi granitiche. Siamo stati all’interno del grande Santuario di Loreto. La casetta della Madonna è lì di fronte a noi. Povere pareti, di sassi e mattoni, annerite dal tempo, fragili per gli anni, con mille rattoppi e interventi eseguiti lungo il corso dei secoli che testimoniano l’amore e la devozione dei fedeli. “Per noi credenti, questa è la reliquia più straordinaria”, dice ancor Padre Santarelli. “Per questo la chiamiamo la “Santa Casa”. Tra queste povere mura nacque e visse la Madonna, cioè la madre di Dio, la creatura più santa che mai sia esistita sulla terra. Qui, Maria ebbe l’Annunciazione dell’Angelo e qui si realizzò il più grande evento dell’universo, l’incarnazione di Dio”. Il religioso parla sottovoce, per non disturbare i pellegrini che, inginocchiati, sono raccolti in preghiera. “Vede quella scritta in latino che sta sulla parete di fondo all’altezza del tabernacolo?”, mi dice ancora padre Santarelli. “È scritto: “Hic, verbum caro factum est”. Cioè, “Qui, in questo luogo, Dio si è fatto carne”. Cerchi di pensare al significato concreto di questa frase. Dio, il creatore dell’Universo, in questo luogo, di fronte a queste pietre, si è fatto uomo. Queste pietre hanno assistito all'evento degli eventi. Per un credente, c’è da impazzire a pensare a una cosa del genere. Ecco perché questa piccola casa costituisce un patrimonio spirituale immenso”.

“Perché è stata trasportata da Nazaret in Italia?” chiedo.

“Per essere salvata dalla distruzione”, dice padre Santarelli. “Nella seconda metà del secolo tredicesimo in Palestina era in atto una violenta invasione musulmana, con la distruzione sistematica dei luoghi santi cristiani. Qualcuno, uomini, o Angeli, o uomini con l’aiuto certamente del soprannaturale, riuscì a salvare questa casetta portandola in Italia”.

“Ma perché proprio in Italia e non in un altro luogo?”.

“Non lo sappiamo. Gli antichi storici, credenti naturalmente, dicevano che “per provvidenziale disegno, la Casa della Madonna era passata dalla terra di Cristo, alla terra del vicario di Cristo”. Loreto allora faceva parte dello Stato del Vaticano. Prima però di fermarsi in Italia, la Casa fece trappa altrove. Dalle ricerche storiche risulta che nel maggio 1291 fu trovata da alcuni boscaioli in una radura vicino a Tersatto, nella Dalmazia. E lì vi rimase tre anni e mezzo, e avvennero molti prodigi. Poi, improvvisamente com’era arrivata, scomparve. La seconda tappa fu una località nei pressi della stazione ferroviaria di Loreto, che allora era un bosco, e si fermò lì alcuni mesi. Passò poi sul colle di Loreto, in un campo di proprietà di due fratelli, i quali litigavano continuamente per dividersi le offerte che facevano i pellegrini. E la casa, dopo un po’, se ne andò da qual campo e si fermò in mezzo a una strada, di proprietà del comune, proprio dove si trova ancora. Da lì non si è più mossa”.

Quali ricerche sono state fatte per stabilire che questa casetta è proprio quella che un tempo esisteva a Nazaret?

“Sono state fatte ricerche di ogni genere. Ricerche di tipo storico e di tipo archeologico, eseguite da celebri studiosi, sia a Loreto, come anche a Nazaret dove la Santa Casa un tempo si trovava. Tutte le ricerche hanno sempre dimostrato che il racconto della tradizione è autentico, e cioè che la casa di Loreto è quella che un tempo era a Nazaret. Naturalmente le ricerche più importanti sono quelle fatte in tempi moderni. Soprattutto quelle eseguite a Nazaret tra il 1955 e il 1960 sotto la direzione di Padre Bellarmino Bagatti, uno dei più illustri archeologi del Ventesimo secolo, e quelle eseguite a Loreto dall’architetto Nerio Alfieri, professore di archeologia a Bologna. Le ricerche del professor Alfieri hanno dimostrato che questa costruzione è piena di assurde anomalie, in netto contrasto con le costruzioni della zona e anche con le regole urbanistiche vigenti nel tredicesimo secolo. La Casa non ha fondamenta proprie, e poggia veramente su una strada. È costituita da sole tre pareti, le quali, per un’altezza di circa tre metri, sono fatte di pietre, e si sa che nella zona marchigiana non esistono cave di pietre e tutte le costruzioni a quel tempo erano fatta in laterizi. È anomalo che l’unica porta, quella originaria, si trovi al centro della parete lunga, e non in quella breve, come è in tutte le chiese e cappelle del tempo, e che sia collocata a nord esposta a forti e frequenti intemperie, contro ogni uso edilizio locale. È anomalo ancora che l’unica finestra sia orientata a ovest e quindi aperta a una ridotta illuminazione, anche qui contro ogni regola edilizia del tempo. Ma tutte queste anomalie svaniscono se si confrontano con i risultati delle ricerche archeologiche fatte a Nazaret. La casa di Loreto non ha fondamenta perché le sue fondamenta sono rimaste a Nazaret, dove un tempo si trovava. Ha solo tre pareti perché era appoggiata a una grotta scavata nella roccia, con la quale costituiva un solo blocco abitativo. Uno studio straordinario compiuto dall’architetto Nanni Monelli nel 1982, quando anch’io ero a Loreto, ha dimostrato che se si potesse ritrasportare la casa di Loreto a Nazaret, combacerebbe perfettamente con ciò che laggiù è stato trovato. Le misure della casetta di Loreto e anche lo spessore delle tre pareti corrispondono perfettamente alle misure delle fondamenta che si trovano a Nazaret. Le pietre con le quali le pareti sono state costruite sono quelle tipiche della Palestina e anche i tipi di muratura usati. Nanni Monelli ha fatto delle ricerche approfondite sulle pietre, trovando che sono lavorate con una tecnica specifica di quei luoghi palestinesi, propria della cultura nabatea, cioè di un popolo semita che esisteva in quelle zone. Si trattava di una lavorazione a bulino realizzata con un utensile detto ferrotondo e tondino, e di un’altra lavorazione, sempre di tradizione nabatea, realizzata con tratti vicini e poco profondi, attuati con una subbia a punta. Queste tecniche sono assolutamente sconosciute nell'area italiana e in specie marchigiana. Io poi ho fatto uno studio specifico sui graffiti ancora leggibili su diverse delle pietre della Santa Casa di Loreto. Ne ho identificati una cinquantina e sono segni che si richiamano a quelli dei giudei cristiani della Terra Santa e in particolare a quelli trovati a Nazaret. Ho anche decifrato una scritta in caratteri greci sincopati, che tradotta dice: “O Gesù Cristo, figlio di Dio”, frase iniziale di una preghiera che si trova scritta, nella grotta che era accanto alla casa di Maria a Nazaret. Questi e tantissimi altri particolari inducono a una sola conclusione: la Casa di Loreto è proprio quella che fino al 1291 si trovava in Palestina e che da 1300 anni era venerata come la Casa della Madonna”.
                                                                       Tito Casini, da Il Pane sotto la neve


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La gamba di Miguel Juan

Nel 1617, a Calanda, nell’Aragona spagnola, nasce un certo Miguel Juan Pellicer, figlio di contadini e contadino lui stesso, analfabeta, dotato di una fede solida ed essenziale, devoto alla Vergine del Pilar di Saragozza.
Lasciata la famiglia per non pesare sul magro bilancio dei genitori, verso la fine di luglio del 1637, mentre lavora tra i campi, un carro di frumento gli transita su una gamba, proprio sotto il ginocchio, procurandogli la frattura della tibia nella parte centrale.
Tra dolori inenarrabili, vuole andare a Saragozza per mettersi sotto la protezione della Vergine del Pilar. Cinquanta giorni di viaggio e trecento chilometri sotto la canicola estiva, raccattando passaggi qua e là. Quando arriva in città, praticamente moribondo, si trascina sui gomiti fin nel santuario e qui si affida alla Vergine: “Pensaci Tu perché sto per morire”.
Con sega e scalpello – gli strumenti del tempo – gli viene amputata la gamba, unica soluzione per salvargli la vita. Passa un anno prima di uscire dall’ospedale con una gamba di legno, due stampelle e una specie di patentino che gli dava la possibilità di esercitare la “professione” del mendicante. Tutti i giorni, per due anni e mezzo, davanti alla porta del santuario del Pilar, l’intera Saragozza gli passa accanto, lo vede, si commuove, qualcuno lo aiuta; alla sera, quando il santuario chiude, Miguel Juan si cosparge il moncone della gamba con un po’ di olio consumato dalle lampade del santuario, nonostante che i medici, da cui è visitato periodicamente, lo ammoniscano inutilmente. Quando lo riconoscono alcuni compaesani che sono a Saragozza per un pellegrinaggio, non potendo più tenere nascosta la sua situazione, Miguel Juan decide di tornare dai genitori a Calanda, circa 100 chilometri a sud di Saragozza. E qui, altro non può fare che riprendere a mendicare.
Il momento fatidico giunge alla sera del 29 marzo del 1640. È giovedì. Siamo tra le dieci e le undici di sera. Miguel Juan cena con i genitori, due vicini di casa e un soldato di cavalleria dell’Esercito Reale, che è di passaggio e a cui era stata data ospitalità. Miguel Juan, dopo la povera cena, si congeda dalla compagnia e decide di andare a coricarsi. Ripone la protesi di legno e le stampelle, va a dormire nella camera da letto di mamma e papà, perché aveva lasciato il suo giaciglio abituale al soldato.
Qualche tempo dopo, la madre entra nella camera e, sentendo un profumo intenso “come di Paradiso”, si accorge che da quel mantello troppo corto che ricopre il figlio addormentato spuntano due piedi. Giunge il padre, richiamato dalla donna. In principio pensano che si tratti del soldato che ha sbagliato stanza, ma, sollevando la coperta e guardando meglio, scoprono che quella persona è proprio il loro figlio.
Miguel Juan, il mutilato, dorme profondamente, ma ha riattaccata quella gamba che, due anni e cinque mesi prima, gli era stata amputata. E non si tratta di una gamba qualsiasi, ma proprio della sua, con tutte le caratteristiche e le cicatrici del suo arto e con un circolino rosso nel punto in cui era avvenuta 1’amputazione. Svegliano il figlio.
Stava sognando – dirà Miguel Juan – di essere a Saragozza nella cappello della Vergine del Pilar e che si ungeva la gamba segata con l’olio di una lampada, come era uso fare quando era in quel santuario. Un miracolo straordinario, quello di un arto amputato improvvisamente riattaccato, che solo Dio, l’autore e il padrone delle leggi della natura può compiere. Se il fatto e vera, allora la conclusione si impone: Dio esiste.
Ma ci vogliono le prove. Le prove ci sono, eccome. E sono tante, tutte concordi, ben fondate, ottimamente documentate, al punto che Messori si spinge a dire: “Dovrebbe dubitare di tutta quanta la storia umana, compresi i fatti più certi perché più attestati, chi rifiutasse la verità di quanta successo a Calanda quella sera di marzo della settimana di Passione del 1640”. Vediamole in sintesi.
II miracolo viene attestato solo sessanta ore dopo da tutte le autorità locali: il vicario parrocchiale don Jusepe Herrero, il justicia (il giudice e insieme il responsabile dell’ordine pubblico) Martin Corellano, il sindaco Miguel Escobedo, il suo vice Martin Galindo e, soprattutto, il notaio reale Lazaro Macario Gomez.
In pochissimi giorni viene istituito un processo pubblico in cui sfilano decine e decine di testimoni oculari, nel frattempo, viene visitato il luogo dove era stata sepolta dai medici la gamba amputata, ma viene trovato vuoto (come riportato da un Aviso Historico, un giornale del tempo). Dopo quasi undici mesi di lavoro e con quattordici sedute pubbliche e plenarie, si pronuncia la sentenza del processo di Saragozza in data 27 aprile 1641: “Perciò affermiamo e dichiariamo che a Miguel Juan Pellicer, contadino di Calanda, fu restituita la gamba che gli era stata amputata due anni e cinque mesi prima; e che non fu un fatto di natura, ma opera mirabile e miracolosa, ottenuta per intercessione della Vergine del Pilar”.
I ventiquattro testimoni oculari, scelti dal tribunale di Saragozza tra innumerevoli possibili, possono essere suddivisi in cinque gruppi. Cinque sono medici ed infermieri, e tra loro il chirurgo che amputo la gamba e i due sanitari di Calanda che procedettero alla visita immediatamente dopo l’evento. Cinque tra familiari e i vicini di casa. Quattro sono autorità locali di Calanda, sopra ricordate. Quattro sono ecclesiastici, sia di Saragozza che di Calanda. Sei “vari”, tra cui l’oste, nella cui bettola vicino al Pilar Miguel Juan, storpio, passava la notte quando rimediava quattro soldi di elemosina e un altro oste, di Samper, dal quale aveva alloggiato sulla strada del ritorno a casa. I testimoni sono scelti per dar conto, sotto giuramento, delle differenti tappe della storia di Miguel Juan Pellicer: la frattura, 1’amputazione, la mendicità al Pilar, il ritorno al paese natale, 1’evento miracoloso del 29 marzo e i fatti dei giorni successivi.
È così straordinario quanto è accaduto a Calanda, che il giovane contadino Miguel Juan venne ricevuto addirittura dal re Filippo IV, il più orgoglioso sovrano del mondo, il monarca dell’impero dove “non tramontava mai il sole”. Il sovrano, dopo aver sentito la sua testimonianza e 1’inequivocabile sequenza di eventi da parte delle più importanti autorità spagnole, si inginocchia davanti al contadino, gli bacia con devozione la cicatrice, rimasta là dove l’arto era stato amputato e poi riattaccato.
Che cosa dire di questa storia, così minuziosamente investigata da Vittorio Messori nel suo libro “Il Miracolo”? Forse le parole migliori sono quelle che l’autore adopera, da storico e da giornalista, per concludere la sua opera indagatrice.
“In quelle ”notti oscure” di cui parlano proprio i mistici spagnoli, in quei momenti (inevitabili, fisiologici nella strutture della fede) in cui il dubbio sembra rodere, malgrado ogni accumulo di “ragioni per credere”; ebbene proprio allora soccorre il ricordo di un campanile che si leva, vigoroso, sul Desierto de Calanda, nella Bassa Aragona. Una torre che ha l’aspetto di un punto esclamativo: segnala, infatti, almeno un luogo nel mondo dove “la scommessa sul Vangelo” si scioglie in quella certezza che solo un fatto oggettivo, constatabile, sicuro può garantire. Lì la cronaca, la storia, sembrano davvero spalancare, all’improvviso, una finestra verso 1’Eterno.”
Sì, Dio esiste e a Calanda ha dimostrato che nulla gli è impossibile. Lì ha deciso intervenire nella “carnalità” dell’esistenza del giovane contadino Miguel Juan Pellicer, di annullare ciò che era avvenuto per mezzo dell’uomo, di sospendere tutte le leggi della natura, di riparare ciò che era irreparabile.
A Calanda, Dio, attraverso l’intercessione di Maria Vergine, ha voluto lasciare un segno concreto, tangibile, indubitabile. Per usare le parole dell’arcivescovo di Saragozza “Com’e stato dimostrato con certezza nel processo, il detto Miguel Juan fu visto prima senza una gamba e poi con questa. Quindi non si vede come si possa dubitare di ciò”.
Nessun dubbio, dunque: questa gamba riattaccata può essere un grimaldello per fare breccia nello scetticismo dell’uomo postmoderno. Ma Calanda dice molto anche a certi cattolici, soprattutto a quella intellighenzia la cui fede si vuole adulta e che bolla i miracoli e altre forme di religiosità popolare come favolette superstiziose, adatte per vecchiette e per bigotti.
                                                                                              Renzo Allegri


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Arokia Matha - Madre della Buona Salute (Vailankanni - Bengala)

 Sulla costa del Golfo del Bengala, 250 km a sud della città di Madras, c’è un luogo assai singolare. Un piccolo paese di appena cinquemila abitanti dove ogni anno accorrono oltre venti milioni di pellegrini da ogni angolo dell’India e da altri paesi della terra, per visitarlo con devozione. Questo ridente paesino indiano, ricco di palmizi, si chiama Vailankanni e a noi occidentali il suo nome probabilmente non dice molto, ma nell’immaginario religioso dell’immenso continente asiatico è conosciuto e venerato come la “Lourdes d’Oriente”.
La Madonna, secondo la tradizione, avrebbe scelto proprio questo sperduto paese del Bengala per mostrare la sua sollecitudine materna, operando miracoli e apparendovi diverse volte. Una tradizione orale ben fondata, parla di tre apparizioni di Maria. La prima risalirebbe al sedicesimo secolo. Un ragazzo indù stava andando a consegnare il latte a un cliente; mentre riposava sotto un albero, vicino a un laghetto, gli apparve la Madonna chiedendogli un po’ di latte per il Bambino. Il ragazzo acconsentì prontamente per poi rimettersi in cammino. Arrivato alla casa del cliente chiese scusa per il ritardo e anche per il latte che mancava. Controllando invece il recipiente del latte si accorse che non mancava niente. Lo stesso signore, anch’egli un indù, incuriosito dal racconto del ragazzo, si recò con lui al laghetto. E lì la Madonna apparve di nuovo. Il fatto si diffuse tra la comunità cattolica vicina che chiamò quel laghetto Matha Kalum, cioè il Laghetto di Nostra Signora.
Alcuni anni più tardi la Madonna apparve di nuovo, questa volta a un ragazzo disabile che vendeva burro in una piazza dello stesso villaggio di Vailankanni. A lui la Madonna domandò un po’ di burro per il suo Bambino. Il ragazzo glielo diede. Poi la Madonna gli disse di parlare dell’accaduto ad un facoltoso cattolico di una città vicina. Il ragazzo non si accorse subito di essere guarito alla sua gamba. Si alzò immediatamente e si recò da quel signore per eseguire la commissione. Anche lui, il giorno prima, aveva avuto una visione, in cui la Madonna gli chiedeva di edificarle una cappella. Subito dopo, insieme, si recarono al luogo dove Nostra Signora era apparsa. E proprio qui fu costruita una piccola cappella (una capanna), che ben presto divenne un luogo di culto alla Madonna, chiamata “Arokia Matha” cioè “Madre della Buona Salute”.
Il terzo miracolo riguarda invece dei mercanti portoghesi che, per intercessione della Madonna, furono salvati dal naufragio. Essi furono poi condotti dai pescatori del luogo a quella capanna-cappella. Questi mercanti, tornati dal loro viaggio, fecero costruire una vera cappella, dedicandola a Nostra Signora nel giorno della sua natività. Era l’8 settembre. In questo modo volevano ricordare il giorno del loro prodigioso salvataggio dalla tempesta al largo di Velankanni. Da alcuni anni, l’11 febbraio, giorno in cui la Chiesa commemora l’apparizione di Nostra Signora a Lourdes, è stato significativamente associato a un evento importante: la celebrazione della Giornata Mondiale del Malato. Nell’anno 2002, in cui se n’è celebrato il decimo appuntamento, questa celebrazione ha avuto luogo proprio presso il noto centro di pellegrinaggio mariano dell’India meridionale, il Santuario della “Madonna della Salute” di Vailankanni. E, di certo, non a caso. Da diversi secoli, infatti, con fiducia e profonda devozione, milioni di uomini e donne raggiungono il santuario situato sulle coste del Golfo del Bengala, certi dell’aiuto celeste della Madre di Dio per tutte le loro necessità, soprattutto guarigioni dalle sofferenze corporali che li affliggono.
“Vailankanni - scriveva il papa Giovanni Paolo II - “non attrae solo pellegrini cristiani, ma anche molti seguaci di altre religioni, in particolare indù che vedono nella Madonna della Salute la Madre premurosa e compassionevole dell’umanità sofferente”. Per questo motivo, il santuario è divenuto oggi “un punto di incontro per membri di diverse religioni e un esempio eccezionale di armonia e scambio interreligiosi”.

                                                                                                                       Miriam Soter

Maria, la donna per tutti!

Il Beato Angelico, giovane frate, ritornava una sera al convento, recitando il Rosario. Attraversava la campagna. Gli apparve la Regina del Cielo; tanti Angeli le stavano vicino, cantando ed intrecciando una corona di rose. Il frate interruppe la recita del Rosario per contemplare quella scena di Paradiso. Gli Angeli interruppero pure il canto e lasciarono incompiuta la corona di rose. Sorpreso, il Beato Angelico ripiglio la preghiera e gli Angeli ricominciarono a cantare; ad ogni Ave Maria, una nuova rosa veniva inserita nella corona. Terminato il Rosario, il serto di rose fu presentato dagli Angeli a Maria. Il frate non dimentico più la visione. Si sforzo di riprodurla in pittura. Trascorse la vita nella preghiera e nel lavoro, lasciando una grande quantità di quadri, rappresentanti la Madonna e gli Angeli. Negli ultimi istanti della vita, miro a lungo in alto, quasi trasfigurandosi in viso per l’emozione; poi esclamo: “La Madonna e molto più bella di quanto io l’abbia dipinta!”. E spirò.
Com’è nata la preghiera dell’Angelus
La recita dell’Angelus, accompagnata tre volte al giorno dal suono delle campane delle chiese, ebbe inizio proprio nel 1200, il fecondo secolo della Teologia Scolastica e delle Cattedrali gotiche, ma anche di grande devozione alla Madonna.
Dapprima si chiamò “preghiera della pace”: aveva, infatti, lo scopo di onorare il Figlio di Dio che, incarnandosi nel seno della Vergine Maria, pose i fondamenti della pace tra Dio e gli uomini.
Inizialmente si usava recitarlo solo alla sera, perché si riteneva che l’Arcangelo Gabriele si fosse presentato alla Vergine di Nazareth verso il tramonto, per annunziarle il mistero della sua divina maternità. Né aveva la forma attuale, consistendo nel rivolgere alcune volte a Maria le parole dell’Angelo (Ave, piena di Grazia: il Signore è con te) e quelle del saluto di Elisabetta (Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo). Consisteva, cioè, nella prima parte dell’Ave Maria.
Solo più tardi assunse progressivamente la forma attuale. Ma chi ne fu l’iniziatore? Alcuni ritengono che la pia pratica sia sorta in Germania, appunto all’inizio del XII secolo. Lo deducono da espressioni del genere seguente, incise sulle campane del tempo: “Ave Maria - Rex gloriae Coriste, veni cum pace” oppure: “Maria vocor - o Rex gloriae, veni cum pace.”
Altri attribuiscono l’origine della pratica mariana a Gregorio IX (1241), il Papa che fu eletto a 85 anni e morì quasi centenario.
Le prime notizie sicure risalgono piuttosto alla seconda metà del sec. XIII.
In una Chronica francescana dell’epoca, si legge infatti che nel Capitolo generale dell’Ordine tenuto da San Bonaventura a Pisa nel 1263, fu stabilito che “i frati nei discorsi persuadessero il popolo a salutare alcune volte la Beata Vergine Maria al suono della campanari Compieta, perché è opinione di alcuni solenni dottori che in quell’ora essa fosse salutata dall’Angelo.” A San Bonaventura, del resto, doveva stare molto a cuore la pia pratica, tanto che la raccomandò anche nel Capitolo generale di Assisi del 1269.
La pratica dell’Angelus, predicata dai Francescani, si diffuse rapidamente. Nel 1274 la si trova a Magonza, e nel 1288 a Lodi, ove lo “Statuto dei Calzolai” ordinava che essi dovessero subito smettere il lavoro, al sabato sera e alla Vigilia delle feste della Madonna, “appena udito il primo suono delle campane dell’Ave Maria, dal campanile della Chiesa Maggiore”, pena la multa di 20 “imperiali”!
Lo stesso modo di suonare la campana all’Angelus e il numero delle Ave Maria si trovano già precisati nelle “Costituzioni” del Capitolo provinciale francescano tenuto a Padova nel 1295: “In tutti i luoghi -  vi si legge - si suoni la sera un poco per tre volte la campana ad onore della gloriosa Vergine, e allora tutti i frati genufletteranno e diranno tre volte: “Ave Maria, gratia plena”.
In un decreto del “Sinodo di Strigonia” (Ungheria) del 1307 si prescriveva che tutte le sere si suonasse la campana ad instar tintinnabuli (dolcemente), e si concedevano indulgenze ai fedeli che a quel suono avessero recitato tre Avemaria.
                                                                       Il Beato Angelico e il Rosario

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La Santa Casa di Loreto nelle visioni della Beata Anna Katharina Emmerick

Nel caso della Beata Caterina Emmerich si può dire che, ancora di più che della rivelazione di Santa Caterina da Bologna, l’autenticità e veridicità delle sue “rivelazioni” e “visioni” avute (oltre che dal riscontro oggettivo fatto nella realtà), sono state avallate in modo straordinario proprio da Dio stesso, con il “miracolo vivente” della sua “sussistenza miracolosa” mediante il solo “nutrimento” della sola Comunione con Gesù Eucaristia. Non può perciò ella aver ingannato nessuno, se Dio stesso ne comprovava la veridicità di quanto affermava con il “miracolo vivente” che la sua vita stessa costituiva presso i suoi contemporanei.
In proposito, Gesù stesso dice nel Vangelo (e ciò forse non vale anche per i suoi Santi?…): “Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere…” (Gv 10, 37-38). E anche “Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace” (Gv 5, 31-32). E ancora: “Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero” (Gv3, 32-33).
A riguardo della Santa Casa di Loreto, la Beata Caterina Emmerich - per anni immobile nel letto - la descrive con esattezza, pur senza averla mai vista, dichiarando che ivi avvenne l’Annunciazione dell’Angelo a Maria; e afferma anch’ella che la Santa Casa fu portata via da Nazareth proprio dagli “Angeli” (quelli “veri”, quelli “spirituali”), e proprio “in volo”, e affermando risolutamente (e testualmente): “Le pareti della Santa Casa di Loreto sono assolutamente le stesse di Nazareth” (cfr. “Le Rivelazioni di Caterina Emmerick”, ed. Cantagalli, Siena, 1968, I°, p.140).
Questa è la descrizione del “trasporto angelico” della Santa Casa come avuto “in visione” dalla Beata: “Ho visto spesso, in visione, la traslazione della Santa Casa di Loreto. …Ho visto la Santa Casa trasportata sopra il mare da sette Angeli. Non aveva alcun fondamento… Tre Angeli la tenevano da una parte e tre dall’altra; il settimo si librava di fronte: una lunga scia di luce sopra di lui…” (Beata Caterina Emmerick, “Vita di Gesù Cristo e rivelazioni bibliche”, cap. IV, par.2°).
La Beata Caterina Emmerich, nel testo sopra riportato, “rivela” persino il numero degli Angeli deputati da Dio a questo “miracoloso trasporto”: esattamente sette Angeli. Forse che “episodi” simili non si leggono anche nella Sacra Scrittura? (cfr. Es 14, 19; Es 23, 20-23; Tb 8, 3; Dn14, 33-36; e tanti altri)… Forse che Dio non può far fare dagli Angeli, nel Nuovo Testamento, quanto faceva a loro fare nel Vecchio Testamento? (cfr. anche At 8, 39-40)… Non c’è anche scritto nel Salmo (90, 12), a riguardo degli Angeli: “Sulle loro mani ti porteranno…”?



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Beata Vergine Maria del Monte Carmelo

Il primo profeta d’Israele, Elia (IX sec. a.C.), dimorando sul Monte Carmelo, ebbe la visione della venuta della Vergine che si alzava come una piccola nube, dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In quella immagine tutti i mistici cristiani e gli esegeti hanno sempre visto la Vergine Maria che, portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo.
Un gruppo di eremiti, “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”, costruirono una cappella dedicata alla Vergine sul Monte Carmelo. I monaci carmelitani fondarono, inoltre, dei monasteri in Occidente.
Il 16 luglio del 1251 la Vergine, circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre generale dell’Ordine, S. Simone Stock, al quale diede lo “Scapolare” col “Privilegio Sabatino”, ossia la promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Nelle “Cronache del Carmelo” sono riportati numerosi e autentici prodigi relativi allo “Scapolare” fra cui :
Agli inizi del XX sec., a Ashtabula (Ohio), un uomo, attraversando imprudentemente il passaggio a livello fu letteralmente tagliato in due. Alla sorpresa generale resta in vita e reclama i soccorsi di un prete; quest’ultimo arriva e sente la confessione dell’uomo rimasto cosciente per tre quarti d’ora. Dopo aver ricevuto l’estrema unzione, questo peccatore, riconciliato “in extremis” con Dio, muore in pace. Sul suo petto fu trovato lo Scapolare.
Lo Scapolare salva ancora un prete francese colpito a bruciapelo da un proiettile mentre celebrava la messa. Miracolosamente lo Scapolare aveva fatto da scudo in quanto il proiettile fu ritrovato incollato su di esso.
Anche S. Alfonso Maria de’ Liguori  e Don Bosco portavano lo Scapolare e, in ambedue i casi, alla loro riesumazione ai fini dei processi di beatificazione, i loro corpi erano ridotti in polvere mentre gli Scapolari erano rimasti intatti (lo Scapolare di S. Alfonso è esposto al Monastero S. Alfonso di Roma).
S. Pio X (Giuseppe Sarto, 1903-1914), con decreto “Cum Sacra” del 16 dicembre 1910, ha concesso la facoltà di sostituire lo Scapolare di tessuto (lana) con una medaglia a causa del rapido deterioramento della stoffa nei paesi caldi. Questa concessione è stata, in seguito, estesa in tutto il mondo. La medaglia (benedetta secondo una formula di benedizione dei Carmelitani) deve comportare da una parte Nostro Signore che mostra il suo Cuore e dall’altra la Vergine Maria del Monte Carmelo.
A Fatima le Apparizioni si conclusero con la visione della Madonna del Carmelo. Lucia, fattasi poi carmelitana scalza, disse che nel messaggio della Madonna “il Rosario e lo Scapolare sono inseparabili”.
Il Venerabile Pio XII (Eugenio Pacelli, 1939-1958) affermò che “chi lo indossa viene associato in modo più o meno stretto, all’Ordine Carmelitano”, aggiungendo “quante anime buone hanno dovuto, anche in circostanze umanamente disperate, la loro suprema conversione e la loro salvezza eterna allo Scapolare che indossavano! Quanti, inoltre, nei pericoli del corpo e dell’anima, hanno sentito, grazie ad esso, la protezione materna di
Maria! La devozione allo Scapolare ha fatto riversare su tutto il mondo, fiumi di grazie spirituali e temporali”.
Altri papi ne hanno approvato e raccomandato il culto come il Beato Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, 1958-1963) e il Beato Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) che scrisse ai padri Joseph Chalmers e Camilo Maccise, dell’Ordine dei “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”: «Anch’io porto sul mio cuore, da tanto tempo, lo Scapolare del Carmine! Per l’amore che nutro verso la comune Madre celeste, la cui protezione sperimento continuamente, auguro che quest’anno mariano aiuti tutti i religiosi e le religiose del Carmelo e i pii fedeli che la venerano filialmente, a crescere nel suo amore e a irradiare nel mondo la presenza di questa Donna del silenzio e della preghiera, invocata come Madre della misericordia, Madre della speranza e della grazia. Con questi auspici, imparto volentieri la Benedizione Apostolica a tutti i frati, le monache, le suore, i laici e le laiche della Famiglia carmelitana, che tanto operano per diffondere tra il popolo di Dio la vera devozione a Maria, Stella del mare e Fiore del Carmelo!» (Dal Vaticano, 25 marzo 2001, Joannes Paulus II).

                                                                                              da La voce cattolica


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Farsi casa

Si dice che a Lourdes la Madonna riceva in udienza pubblica, mentre a Fatima riceve in udienza privata. Credo che sia vero, perché i due santuari comunicano sensazioni molto differenti. Ma se è così, a Loreto invece la Madonna ti invita a casa sua e ti offre il caffè.
Tutto a Loreto parla di ferialità, di semplicità, lo si potrebbe dire un santuario casalingo. Non che manchi la solennità o il fasto, ma non è mai esibito, potresti quasi dirlo discreto. Una regalità sommessa, una solennità soffusa sembrano essere il carattere lauretano. Del resto a pensarci è del tutto logico, dove potrebbe altrimenti viversi la spiritualità di Nazareth se non nella Santa Casa? Dove altrimenti imparare ad essere famiglia?
Però l’altro ieri la Madonna ha davvero esagerato! Vado abbastanza spesso a Loreto, ma una combinazione fortuita come quella non si era mai presentata ed ho potuto rimanere da solo nella Santa Casa molto a lungo e mentre accarezzavo le pietre amate, contemplandone amorosamente i familiari graffi e macchie, un pensiero mi ha colpito, quasi come una voce interiore: “Ciò che rende santa questa casa è la presenza di Maria in essa, ma se Maria vive in te allora la santa casa sei tu! Fatti casa per tutti quelli che incontrerai e troverai la pace di Loreto”.
Farsi casa! Che ideale bellissimo! In un mondo sempre più inospitale e aggressivo, dove la violenza ideologica di briganti politici filosofici o teologici lascia a terra sempre più vittime moribonde, essere la locanda tra Gerusalemme e Gerico, per accogliere un Uomo Concreto sempre più ferito e smarrito, abbandonato da preti e farisei distratti dai loro progetti pastorali o dalle loro ansie di restaurazione o di progresso (che altro non sono che due facce del medesimo peccato di orgoglio: la fede trasformata in ideologia) a sanguinare sulle vie della storia. Tenetevi pure i vostri dibattiti e le vostre polemiche intellettuali, non ho tempo per questo, lasciatemi solo olio e vino per curare i moribondi.
Farsi casa! Essere famiglia per vincere la solitudine disperata che ci stringe da ogni parte, aprire senza riserve le porte del cuore perché ognuno si senta accolto, dal barbone alcolizzato al professore cinico e disperato, dal giovanotto pieno di speranze frustrate alla fanciulla bellissima nel suo fiorire e violentata nella sua innocenza. Farsi casa! Perché ognuno trovi in me una parola, un sorriso, una carezza, una speranza. Farsi casa, perché nessuno mai più sia solo.
Farsi casa è la via della Nuova Evangelizzazione. Sarà anche vero che la sfida di fronte a cui si trova oggi la Chiesa è quella della rielaborazione di una cultura cristiana, ma la cultura cristiana medioevale è nata nei monasteri, oasi di umanità nella barbarie, casa di uomini smarriti e dispersi, così oggi credo che la Nuova Cultura Cristiana di cui abbiamo disperatamente bisogno non nasca nelle aule universitarie o nelle aule parlamentari (in cui a scanso di equivoci dovrà comunque approdare, ma in un secondo tempo), ma in famiglia, o anche nelle parrocchie e nei conventi, ma solo nella misura in cui sapranno essere famiglie, là dove, come a Loreto, la solennità si fa feriale, la maestà di Dio diventa vicina e quotidiana.
Evangelizzare non è inculcare, non è imporre delle leggi, ma mostrare e perfino direi esibire uno stile di vita che è l’unico umano, ma come in famiglia si dismettono uniformi e segni di potere così farsi casa significherà mostrare la forza del Vangelo feriale, la sua capacità di farsi concretezza quotidiana di vita. Beninteso, non c’è casa senza regole e senza autorità, ma le regole della casa sono regole flessibili, misurate sulla concretezza dell’uomo e l’autorità è tale perché fa crescere e non perché si impone con la forza. Farsi casa allora significherà anche questo: imparare a dire la verità nella mitezza e nella quotidianità di ciascuno.
Per farmi casa devo innanzitutto aprire il cuore ad ognuno che incontro, senza doppi fondi, senza uscite di sicurezza, senza vie di fuga. Rischiare sempre gli affetti, innamorarsi di ogni uomo e donna, sapendo che il mio cuore è comunque custodito dalla Verginità che mi preserva e mi spinge verso l’Unico. Perché la casa è il luogo degli affetti, là dove ognuno sente che il suo cuore riposa, e il cuore non riposa se non là dove non si sente minacciato, ma custodito ed amato. Farsi casa è misurare l’annuncio sull’ascoltatore e non su me stesso.
E mentre sono sempre di più i miei fratelli che impugnano lo spadone a due mani o si rifugiano nella comodità delle sacrestie, io, come Francesco, voglio andare incontro al sultano a mani nude, disarmato, per offrirgli accoglienza. Una casa non è una fortezza, chiusa da bastioni inattaccabili in una logica difensiva dettata dalla paura, una casa ha le porte aperte e un focolare acceso. Nessun cedimento alla logica del mondo quindi, nessun compromesso sull’identità, perché la casa è innanzitutto la casa di Maria e della Sacra Famiglia, ma nemmeno barriere culturali, ideologiche, affermazione orgogliosa della propria diversità. Sì siamo diversi, certo, ma non c’è bisogno di menarne vanto, come nessuno tra le mura domestiche si vanta del proprio nome, che del resto non è suo, ma ha ricevuto in dono.
Farsi casa è scendere nelle strade, abbandonare la sicurezza dei recinti culturali e materiali, portando in sé la certezza dell’appartenenza che ci custodisce nella Verità. Farsi casa è rischiare il sacerdozio nella laicità, la vita religiosa nella secolarità, perché è il Pastore a cercare le pecore e non viceversa. Farsi casa dunque porta con sé i rischi concretissimi della strada, che è persecuzione, violenza, sopruso. Ma come potremo essere degni discepoli di un maestro crocefisso se non ci consegneremo indifesi nelle mani del mondo?
Dopo il Concilio venne la stagione dell’Abbattere i Bastioni, secondo il felice titolo di un aureo libretto di Von Balthasar, questo è stato fatto senza troppo criterio e spesso insieme ai bastioni son venute giù case e gloriosi monumenti, così da un po’ di tempo in qua risuona nella Chiesa l’appello a rialzare i bastioni frettolosamente abbattuti, ma non può essere questa la via! L’identità della Chiesa non può che essere un’identità crocefissa, martire, nel duplice senso di testimone e perseguitata e perciò stesso indifesa. La nostra identità non è nelle forme, non più di quanto la santità stia nelle devozioni, non è dunque in quelle che dobbiamo confidare, pena ridurre la fede ad archeologia. L’amore a Cristo, a Maria, all’uomo e dunque al rischio che comporta sempre il dialogo, presupposto di ogni annuncio, l’essere casa accogliente dove possa scattare la scintilla dell’incontro tra divino ed umano, è la nostra sola via.
In una parola sola farsi casa significa non essere né progressisti né conservatori, ma semplicemente santi.



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La Madonna a Hiroshima e Nagasaki

Su Hiroshima è caduta una bomba atomica.

Lo scopo era di annientare Hiroshima per distruggere il potere militare giapponese.
Ma la Madonna, la Regina del Rosario, ha protetto miracolosamente una piccola comunità di quattro padri gesuiti, che vivevano nella casa parrocchiale, a soltanto otto isolati dal centro dell’esplosione.
Padre Hubert Schiffer aveva 30 anni e lavorava nella parrocchia dell’Assunzione di Maria, a Hiroshima. Ha dato la sua testimonianza davanti a decine di migliaia di persone: “Attorno a me c’era soltanto una luce abbagliante. Tutto a un tratto, tutto si riempì istantaneamente da una esplosione terribile. Sono stato scaraventato nell’aria. Poi si è fatto tutto buio, silenzio, niente. Mi sono trovato su una trave di legno spaccata, con la faccia verso il basso. Il sangue scorreva sulla guancia. Non ho visto niente, non ho sentito niente. Ho creduto di essere morto. Poi ho sentito la mia propria voce. Questo è stato il più terribile di tutti quegli eventi. Mi ha fatto capire che ero ancora vivo e ho cominciato a rendermi conto che c’era stata una terribile catastrofe! Per un giorno intero i miei tre confratelli ed io siamo stati in questo inferno di fuoco, di fumo e radiazioni, finché siamo stati trovati ed aiutati da soccorritori. Tutti eravamo feriti, ma con la grazia di Dio siamo sopravvissuti”.
Nessuno sa spiegare con logica umana, perché questi quattro padri gesuiti furono i soli sopravvissuti entro un raggio di 1.500 metri. Per tutti gli esperti rimane un enigma, perché nessuno dei quattro padri è rimasto contaminato dalla radiazione atomica, e perché la loro casa, la casa parrocchiale, era ancora in piedi, mentre tutte le altre case intorno erano state distrutte e bruciate. Anche i 200 medici americani e giapponesi che, secondo le loro stesse testimonianze, hanno esaminato padre Schiffer, non hanno trovato nessuna spiegazione a perché mai, dopo 33 anni dallo scoppio, il padre non soffriva nessuna conseguenza dell’esplosione atomica e continuava a vivere in buona salute.
Perplessi, hanno avuto tutti sempre la stessa risposta alle tante loro domande: “Come missionari abbiamo voluto vivere nel nostro paese il messaggio della Madonna di Fatima e perciò abbiamo pregato tutti i giorni il Rosario”. Ecco il messaggio pieno di speranza di Hiroshima: La preghiera del Rosario è più forte della bomba atomica! Oggi, nel centro della città ricostruita di Hiroshima, si trova una chiesa dedicata alla Madonna. Le 15 vetrate mostrano i 15 misteri del Rosario, che si prega in questa chiesa giorno e notte.
Un altro racconto di padre Schiffer aggiunge che avevano appena finito di dire Messa, e si erano recati a fare colazione, quando la bomba cadde: “Improvvisamente, una terrificante esplosione riempì l’aria come di una tempesta di fuoco. Una forza invisibile mi tolse dalla sedia, mi scagliò attraverso l’aria, mi sbalzò, mi buttò, mi fece volteggiare come una foglia in una raffica di vento d’autunno”. Quando riaprì gli occhi, egli, guardandosi intorno, vide che non vi erano più edifici in piedi, fatta eccezione per la casa parrocchiale. Tutti gli altri in un raggio di circa 1,5 chilometri, si racconta, morirono immediatamente, e quelli più distanti morirono in pochi giorni per le radiazioni gamma. Tuttavia, il solo danno fisico che padre Schiffer accusò, fu quello di sentire alcuni pezzi di vetro dietro il collo. Dopo la resa del Giappone, i medici dell’esercito americano gli spiegarono che il suo corpo avrebbe potuto iniziare a deteriorarsi a causa delle radiazioni. Con stupore dei medici, il corpo di padre Schiffer sembrava non contenere radiazioni o effetti dannosi della bomba. In realtà, egli visse per altri 33 anni in buona salute, e partecipò al Congresso Eucaristico tenutosi a Philadelphia nel 1976. In quella data, tutti gli otto membri della comunità dei Gesuiti di Hiroshima erano ancora in vita. Questi sono i nomi degli altri sacerdoti gesuiti che sopravvissero all’esplosione: Fr. Hugo Lassalle, Fr. Kleinsorge, Fr. Cieslik.
Un miracolo simile avvenne anche a Nagasaki, dove un convento francescano - “Mugenzai no Sono” (Giardino dell’Immacolata) - fondato da San Massimiliano Kolbe rimase illeso come a Hiroshima. Dal giorno in cui le bombe caddero, i gesuiti superstiti furono esaminati più di 200 volte dagli scienziati senza giungere ad alcuna conclusione, se non che la sopravvivenza degli otto gesuiti all’esplosione fu un evento inspiegabile per la scienza umana.
Sapevate che nel 1945 il 70% dei cattolici giapponesi viveva a Nagasaki? Era “la città cattolica del Giappone”.
Testimonianza del prof. Hikoka Vanamuri - sopravvissuto di Hiroshima nel 6 agosto 1945 (tratto da nelcuoredimaria) Hikoka Vanamuri, già professore all’Università di Tokio in filosofia, è stato intervistato in occasione del suo pellegrinaggio a Fatima, e così ha risposto: “Non tornerò in Giappone. Dopo anni di studi, dopo anni di meditazione ho compreso che la vita nell’atmosfera viziata di Buddha è rimasta un’inacidita testimonianza storica di paganesimo vociferante e mi sono convertito alla religione cattolica. La decisione l’ho presa dopo lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima. Ero a Hiroshima per una ricerca storica. Lo scoppio della bomba mi trovò in biblioteca. Consultavo un libro portoghese e mi venne sott’occhio l’immagine della Madonna di Fatima. Mi sembra che questa si muovesse, dicesse qualcosa. All’improvviso una luce abbagliante, vivissima mi ferì le pupille. Rimasi impietrito. Era accaduto il cataclisma. Il cielo si era oscurato, una nuvola di polvere bruna aveva coperto la città. La biblioteca bruciava. Gli uomini bruciavano. I bambini bruciavano. L’aria stessa bruciava. Io non avevo portato la minima scalfittura. Il segno del miracolo era evidente. Non riuscivo tuttavia a spiegare quello che era successo. Ma il miracolo ha una spiegazione? Non riuscivo nemmeno a pensare. Solo l’immagine della Madonna di Fatima mi splendeva su tutti i fuochi, sugli incendi, sulla barbarie degli uomini. Senza dubbio ero stato salvato perché portassi la testimonianza della Vergine su tutta la terra. Il dott. Keia Mujnuri, un amico dal quale mi recai quindici giorni dopo stabilì attraverso i raggi X che il mio corpo non aveva sofferto scottature. La barriera del mistero si frantumava. Cominciavo a credere nella bellezza dell’amore. Imparai il catechismo ma sul cuore tenevo l’immagine di Lei, il canto soave di Fatima. Desideravo il Signore per confessarmi, ma lo desideravo per mezzo di Sua Madre”.

                                                                                                           Don Fabio Bartoli



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Lei

Ogni giorno ricevo da un sito francese una breve meditazione sulla Madonna. Il 29 luglio 2007 mi è stato mandato un aneddoto riguardante un pastore protestante di Scozia che aveva nel circondario della sua parrocchia diversi irlandesi. Poiché questi ultimi erano cattolici, il pastore le studiava tutte per convertirli. Un giorno incontrò per strada una bambina irlandese di circa otto anni. Dopo qualche convenevole, le promise qualche moneta se avesse ben recitato davanti a lui le preghiere che sapeva. Quella disse il Pater noster. Il pastore le chiese se ne conosceva altre. E lei cominciò con l’Ave Maria. Ma fu interrotta dal pastore: Maria è una semplice donna, bisogna pregare solo Dio. La bambina, allora, recitò il Credo. Ma, giunta a “nato da Maria Vergine”, si bloccò: “Eccola di nuovo”, disse, “Che ci posso fare?”. Il pastore rimase di sasso. Lui stesso aveva ripetuto il Credo tantissime volte senza mai far caso al fatto che al centro della fede cristiana ci fosse Lei, Maria. Da quel momento cominciò per lui un lungo lavorio interiore che lo portò a farsi sacerdote cattolico. E a raccontare a tutti il singolare inizio della sua conversione.

                                                            Fonte: La Signora di tutti i Popoli e Alessandra Viola


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Le pillole miracolose della Vergine

Un giorno, come narrano i resoconti dell’epoca, il santo fra Galvao (Brasile) si dirigeva, a piedi, da Rio a San Paolo, quando un uomo, che soffriva di male ai reni, gli chiese di guarirlo. Sotto ispirazione della Vergine fra Galvao scrisse su un pezzetto di carta: “Post partum, Virgo, inviolata permansisti. Dei genitrix, intercede pro nobis” (Dopo il parto, Vergine, permanesti inviolata. Genitrice di Dio, intercedi per noi), una frase dell’Ufficio della Vergine. Ne fece una pallina e disse all’uomo di prenderla come una “pillola”, recitando la preghiera. Confidando nella Madonna, l’uomo guarì. Poco tempo dopo, il futuro santo viene in soccorso, nella stessa maniera, di una donna con una gravidanza difficile e pericolosa. Dopo aver inghiottito la “pillola” di Padre Galvao, la donna partorisce senza problemi.
Da allora, la sua reputazione dilaga. Ci si rivolge al monastero. La tradizione persiste e le religiose di San Paolo continuano a distribuire le “pillole” di carta (180.000 per settimana)
                                                                       Tratto dagli “antidoti” di Rino Cammilleri



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Il Rosario di Grignon de Montfort

Missionario, Grignon de Montfort risaliva la Senna su una imbarcazione dove si ammucchiavano almeno 200 persone, ridendo in maniera grottesca e cantando canzoni blasfeme. Trovandosi da qualche tempo in questo via vai di commercianti e pescatori, il signor di Montfort cominciò a collocare il suo Crocefisso in cima al bastone. Poi, prosternandosi, gridò: “Coloro che amano Gesù Cristo si aggiungano a me per adorarlo”. Delle scrollatine di spalle e degli sberleffi furono la risposta. Allora, girandosi verso il fratello Nicola: “In ginocchio, gli dice, e recitiamo il Rosario!”. Sotto una valanga di ingiurie, i due uomini, a capo nudo, il viso raccolto e tranquillo, sgranano le Ave Maria. Terminato il primo Rosario, il Santo si alza e con una voce dolce invita gli astanti ad unirsi a lui per invocare Maria. Nessuno si mosse, ma le grida cessarono quando ricominciò la preghiera. Man mano che le invocazioni “Santa Maria, prega per noi peccatori” si succedevano, il volto del santo si trasfigurava. Concluse le cinque nuove decine, si poteva osservare nel suo sguardo una tale supplica e, nella sua voce tanta autorità che, quando implorò gli astanti a recitare il terzo Rosario, tutti caddero in ginocchio e ripeterono, docilmente, quelle soavi parole, dimenticate sin dall’infanzia. Il santo prete poté rallegrarsi: da un teatro di oscenità, aveva creato un santuario; sulle labbra abituate a bestemmiare, vi aveva riportato il nome di Maria.
                                                                                              Francois Xavier Henry



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I telegrafo a grani

Stavo pensando al telegrafo. Voi direte giustamente: perché? Non lo so , solo mi è venuto in mente questa forma di comunicazione superata ormai dalle nuove tecnologie, ma che alla fine del 1800 aveva rivoluzionato il modo di comunicare.
Antenato del telefono, di internet e di tutta la comunicazione moderna, il telegrafo funzionava secondo un sistema semplice, e quindi abbastanza difficile da spiegare (per me che non ci capisco nulla):  un trasmettitore, un impulso trasmesso via cavo, o via onde radio, e un ricevitore che spacchetta il codice del messaggio. I vecchi film in bianco e nero ci hanno lasciato il ricordo di questi messaggi inviati in codice Morse, con il ronzio dei punti e delle linee e il tipo con la cuffia tutto concentrato che digita; ai più giovani basta aver resistito almeno una volta fino al finale del film “Titanic” di James Cameron per capire. Un segnale per lanciare un allarme, per chiedere aiuto, per ricevere risposta e sostegno anche a distanze enormi.
Ovviamente, siccome non sono ferrata di telegrafi, ma di cartoni animati sì, pensando al telegrafo mi è venuta in mente quella scena de “La carica dei 101”, quando i due dalmata si mettono alla ricerca dei loro cuccioli rapiti da Crudelia Demon, sfruttando un sistema di comunicazione chiamato “Il telegrafo del crepuscolo”: un cane abbaia e lancia il segnale, un altro cane lo riceve e lo trasmette, e così altri decine di cani, fino ad arrivare alla fattoria del Colonnello e del Sergente Tibbs, che risolvono il mistero. Una comunicazione incessante, un lavoro continuo, che va avanti per tutta la notte e impegna tutti i cani i Londra, dal più grande al più piccolo, ciascuno secondo le sue possibilità.
Lo so che il paragone è azzardato, ma in fondo ho pensato che anche le preghiera per gli altri è così: c’è un allarme che viene lanciato, un’intenzione che viene affidata alle tue mani e a quelle di tanti altri, e tu non fai che trasmetterla verso l’alto, senza abbaiare, ovviamente, ma sgranando il rosario, o sgranando Ave Maria a ripetizioni, o semplicemente offrendo senza sosta tutto quello che puoi, perché il messaggio arrivi presto. Nei momenti di maggior difficoltà, quando qualcuno che vive un pericolo, e chiede aiuto, la preghiera diventa più forte, il segnale si trasmette incessantemente, e risuona, sempre con le stesse parole. Un codice di preghiere e offerte, di rinunce e doni fatti per il bene di un altro, per la guarigione di un altro, per le intenzioni di un altro.
A questa catena di preghiera partecipano tutti, ciascuno secondo le sue possibilità. C’è chi ha la voce e la preghiera più forte, e chi invece ha la voce più flebile, ma con ancora più forza lavora, e chiama e piange, e chiede, e continua, senza stancarsi. Perché quando vedi intorno a te amici che soffrono, o vengono portate alla tua attenzione storie di dolore di persone che  non conosci, ma che sai essere misteriosamente unite nel cuore e nel corpo alle sofferenze di Cristo, la preghiera diventa l’unico mezzo, per raggiungere e avvicinarsi, per conoscere e per sostenere da lontano, per dare nuova forza ad una casa che,  costruita sulla roccia o sulla sabbia, è evidentemente scossa nelle sue fondamenta, colpita da una tempesta. Il fatto che non crolli e si mantenga, dipende, in fondo, anche dal sostegno della preghiera degli altri. Il nemico ti porta sempre a diffidare, e a pensarci bene, prima di impegnarti per una persona che magari non conosci nemmeno,  ma tu sai bene che la stessa attenzione, la stessa cura, la stessa preghiera, ci sarà per te quando tu ne avrai bisogno e la chiederai, magari con forti grida, o non la chiederai per niente,  perché non hai nemmeno la forza di farlo.
È questa preghiera l’unico strumento che permette di superare i confini dello spazio, di far avvicinare cuori lontanissimi, e unirli nell’intento comune, nella richiesta di una grazia, che, il Vangelo ci insegna, può essere concessa secondo la volontà di Dio - “se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà”(Mt. 18,19) - o semplicemente per dare la forza di accettare quando la grazia non arriva nei tempi e nei modi che vorremmo noi.
Mi sento così, in questi giorni, mentre porto nel cuore le intenzioni di una famiglia particolarmente cara. Io non ho la voce del danese di Hampstead che aiuta i dalmata, ma continuo, come lui a trasmettere il messaggio, e a dire agli amici in difficoltà: “Coraggio, ricorrete al telegrafo, siamo con voi”. E continuo, insieme agli altri compagni di telegrafo,  a restare in ascolto del segnale… a sgranare.
                                                           Recueil Marial (Raccolta Mariana), 1975, pag. 12

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Il segreto mistico di Wojtyla: “Così parlava con la Madonna”

Karol Wojtyla fin dal momento dell’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1946 ebbe esperienze mistiche e anche da Papa, pregando, “parlava” con la Madonna e riceveva da lei messaggi. “Sapeva” in anticipo che sarebbe avvenuta la lacrimazione della Madonnina di Civitavecchia, che considerava un segno rivolto anche a lui, così come “sapeva” che un attentato di matrice islamica avrebbe sprofondato il mondo nel terrore all’inizio del nuovo millennio. Lo scrive Antonio Socci nel nuovo libro “I segreti di Karol Wojtyla”.
 Il giornalista e scrittore, che ha già dedicato inchieste alle apparizioni di Fatima e di Medjugorje, nonché ai segreti di Padre Pio, ha raccolto testimonianze inedite che aprono nuovi squarci sulla vita spirituale di Giovanni Paolo II, il prete, vescovo e Papa che in qualche modo attraversa misteriosamente tutte quelle vicende che hanno segnato la storia della Chiesa nel secolo da poco concluso. “Mentre pregava - spiega don Jarek Cielecki, sacerdote polacco nato nella parrocchia di Niegowic, dove Wojtyla fu viceparroco dopo l’ordinazione - i suoi occhi sembravano guardare qualcosa, non erano vagamente persi nel vuoto com’è il nostro sguardo mentre preghiamo. E poi mi hanno riferito che quando succedeva qualcosa, lui andava davanti all’altare o davanti al quadro dell’Assunta e parlava... Proprio come se stesse parlando con una persona presente che aveva di fronte”. Ma è dal cardinale Andrej Deskur, amico e compagno di seminario del Papa, che arrivano le conferme più importanti: “Lui viveva pregando. Quando stava nella cappella lo si sentiva parlare, come si parla con un’altra persona”. Il porporato, immobilizzato dall’ottobre 1978 sulla sedia a rotelle in seguito a un ictus, ha rivelato a Socci che don Wojtyla con l’ordinazione sacerdotale, il 1° novembre 1946, ricevette la “preghiera infusa”. Chi ha questo dono, lascia «che lo Spirito intervenendo ti guidi... Con apparizioni o con locuzioni interiori. Da questa intimità con Dio si dipana tutto”. Mentre un altro prelato, in colloquio, ebbe a dire: “Sappiamo bene che la Madonna parla al Papa anche se lui non va a dirlo in giro... Lui obbedisce solo alla Madonna, fa solo quello che gli dice lei”. Un giorno - scrive Socci - il cardinale Deskur andò in Portogallo e visitò suor Lucia di Fatima. Alla fine del colloquio chiese se doveva portare un messaggio al Santo Padre da parte della Madonna. Suor Lucia rispose: “No, no, ci penserà la Madonna stessa...”. Il segretario di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, oggi cardinale, ha scritto che quando pregava il Papa “dava l’impressione che stesse parlando con l’Invisibile”. Mentre Benedetto XVI, l’anno scorso, in occasione del terzo anniversario della morte di Wojtyla, nel corso dell’omelia disse che il predecessore “nutriva una fede straordinaria in Cristo risorto e con Lui intratteneva una conversazione intima, singolare e ininterrotta. Tra le tante qualità umane e soprannaturali aveva infatti anche quella di un’eccezionale sensibilità spirituale e mistica”. “Parlava” con Gesù e la Madonna. Aveva intrattenuto un rapporto mistico con Padre Pio, dopo quell’unico incontro avvenuto a San Giovanni Rotondo nella Pasqua del 1948, che Wojtyla definirà “primo” e “più importante incontro”, nonostante non si sia mai più recato dal frate stimmatizzato prima della sua morte avvenuta nel 1968: un particolare che secondo Socci lascia intravedere la possibilità di altri “incontri” tra i due, ma di tipo mistico. Alla luce di queste e molte altre testimonianze, l’autore presenta il pontificato wojtyliano inserendolo nella grande lotta tra Maria, “la Donna” dell’Apocalisse, e il “drago”, cioè Satana. Una lotta che ha visto il ruolo decisivo del primo Papa slavo nella caduta incruenta del comunismo e nell’aver scongiurato, grazie alla Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria richiesto dall’apparizione a Fatima, una catastrofe nucleare a metà degli anni Ottanta. Una lotta che, si legge nell’ultimo capitolo del libro, non è finita, ma continua. E la stessa minaccia nucleare o batteriologica, scrive Socci, è forse più incombente oggi che durante la Guerra fredda. Anche per questo Wojtyla, nell’agosto 1997, dopo essere stato intravisto da un collaboratore mentre pregava disteso a terra e circondato da una strana luce soprannaturale, gli disse: “Se sapessi quello che so io anche tu passeresti la notte a pregare con me”.

 Antonio Socci nel suo libro. Il Papa riceveva anche messaggi dalla Vergine.
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