Verso il Getsemani con undici
apostoli. L'agonia spirituale e la cattura.
16 marzo 1945 Maria Valtorta
La via è tutta silenziosa. Solo una fontanella che ricade in un
bacino di pietra mette un suono in tanto silenzio. Lungo i muri delle case, dal
lato d'oriente, vi è ancora oscurità, mentre dall'altro lato la luna comincia a
fare bianco il sommo delle case e, dove la via allarga in una piazzetta, ecco
che il latteo argenteo della luna scende a far belli anche i ciottoli e la
terra della via. Ma sotto i frequenti archivolti che vanno da casa a casa,
simili a ponti levatoi od a puntelli a queste vecchie case dalle scarsissime
aperture sulle vie, e che in quest'ora sono tutte chiuse e buie come fossero
case abbandonate, vi è l'oscurità perfetta, e il rossastro della torcia portata
da Simone acquista una singolare vivezza e un'ancora più grande utilità. I
visi, in quella luce rossa e mobile, si mostrano con un rilievo netto e, tanti
quanti sono, rivelano altrettanti e diversi stati d'animo. Il più solenne e
calmo è quello di Gesù. Per quanto una stanchezza lo invecchi marcandolo di
linee che solitamente non ha e che fanno già apparire la futura effigie del suo
volto ricomposto nella morte. Giovanni, che gli è al fianco, gira uno sguardo
stupefatto, dolente, su tutto quanto vede. Sembra un fanciullo terrorizzato da
qualche racconto udito o da qualche promessa paurosa e che invochi aiuto da chi
sa di più di lui. Ma chi gli può dare aiuto? Simone, che è all'altro fianco di
Gesù, ha il viso chiuso, cupo, di chi rimugina in sé pensieri atroci. Ed è
ancora l'unico che, dopo Gesù, mostri un aspetto dignitoso. Gli altri, in due
gruppi che continuamente si alternano nella loro formazione, sono tutto un
fermento. E ogni tanto la voce rauca di Pietro o quella baritonale di Tommaso
si elevano con risonanza strana. Poi si riabbassano, come paurosi di quello che
dicono. Discutono sul da farsi, e chi propone l'una e chi l'altra cosa. Ma
cadono tutte le proposte, perché realmente sta per iniziarsi "l'ora delle
tenebre" e i giudizi umani restano oscurati e confusi. «Bisognava dirmelo
prima», arrangola Pietro. «Ma non uno ha parlato. Non il Maestro...», dice
Andrea. «Sì! Proprio Lui te lo diceva. Ma fratello! Sembra che tu non lo
conosca!...», gli risponde Pietro. «Io sentivo qualche cosa di turbato. E l'ho
detto: "Andiamo a morire con Lui". Ve lo ricordate? Ma, per il nostro
santissimo Iddio, se avessi saputo che era Giuda di Simone!...», tuona Tommaso
minaccioso. «E che volevi fare?», chiede Bartolomeo. «Io? Io farei anche ora se
mi aiutaste!». «Cosa? Partiresti per ucciderlo? E dove?». «No. Porterei via il
Maestro. É più semplice». «Non verrebbe! » «Non gli chiederei se verrebbe. Lo
rapirei come si rapisce una donna». «Non sarebbe una malvagia idea!», dice
Pietro. E impulsivo torna indietro, si mette nel gruppo dei due figli di Alfeo
che con Matteo e Giacomo bisbigliano piano come congiurati. «Sentite, dice
Tommaso di portare via Gesù. Tutti insieme. Si potrebbe... dal Get-Samnì per
Betfage a Betania e di là... vela per qualche posto. Lo facciamo? Messo in
salvo Lui, si torna e si stermina Giuda». «É inutile. Israele è tutta una trappola»,
dice Giacomo d'Alfeo. «Ed ora è prossima a chiudersi. Lo si capiva. Troppo
odio!». «Ma, Matteo! Mi fai rabbia! Avevi più coraggio quando eri peccatore!
Di' tu, Filippo». Filippo, che viene solo solo e pare monologare fra sé, alza
il viso e si ferma. Pietro lo raggiunge e bisbigliano fra loro. Poi raggiungono
il gruppo di prima: «Io direi che il posto migliore è nel Tempio», dice
Filippo. «Sei matto?», urlano i cugini, Matteo e Giacomo. «Ma se là lo vogliono
morto!». «Sss! Quanto baccano! So quello che mi dico. Lo cercheranno da per
tutto. Ma non lì. Tu e Giovanni avete buone amicizie fra i servi di Anna. Si dà
un bel boccone d'oro... e tutto è fatto. Credete! Il posto migliore per
nascondere uno ricercato è in casa dei carcerieri». «Io non lo faccio», dice
Giacomo di Zebedeo. «Però, senti anche gli altri. Giovanni per primo. E se poi
lo arrestano? Non voglio che si dica che sono io il traditore...». «Non ci
avevo pensato. E allora?». Pietro è annichilito. «E allora io direi che è
pietoso fare una cosa. L'unica che possiamo. Portare via la Madre...», dice
Giuda d'Alfeo. «Già!... Ma... Chi ci va? Che le si dice? Va' tu, parente». «Io
resto con Gesù. É mio diritto. Va' tu». «Io?! Mi sono armato di spada per
morire come Eleazaro di Saura. Traverserò legioni per difendere il mio Gesù e
colpirò senza ritegno. Se la forza dei più mi ucciderà, non importa. Lo avrò
difeso», proclama Pietro. «Ma sei proprio sicuro che è l'Iscariota?», chiede
Filippo al Taddeo. «Ne sono sicuro. Nessuno di noi ha cuore di serpe. Solo lui...
Va' tu, Matteo, da Maria e dille...» «Io? Ingannarla? Vederla al mio fianco
ignara, e poi?... Ah! no. Sono pronto alla morte, ma non a tradire quella
colomba...» Le voci si mischiano in un sussurro. «Odi? Maestro, noi ti amiamo»,
dice Simone. «Lo so. Non ho bisogno di quelle parole per saperlo. E se danno
pace al cuore del Cristo esse feriscono la sua anima». «Perché, Signor mio?
Sono parole d'amore». «Di tutto umano amore. In verità, in questi tre anni non
ho fatto nulla, perché voi siete ancora più umani della prima ora. Lievitano in
voi tutti i fermenti più fangosi, questa sera. Ma non è colpa vostra...».
«Salvati, Gesù!», geme Giovanni. «Mi salvo». «Sì? Oh! Mio Dio, grazie!».
Giovanni pare un fiore piegato da arsione e che torni fresco sullo stelo. «Lo
dico agli altri. Dove andiamo?». «Io alla morte. Voi alla Fede». «Ma non avevi
detto ora che ti salvavi?». Il prediletto si accascia di nuovo. «Mi salvo,
infatti, mi salvo. Se non ubbidissi al Padre mi perderei. Ubbidisco. Perciò mi
salvo. Ma non piangere così! Sei meno bravo dei discepoli di quel filosofo
greco di cui ti parlai un giorno. Essi rimasero presso il maestro morente per
cicuta, confortandolo col loro virile dolore. Tu... tu sembri un pargolo che
abbia perduto suo padre». «E non è forse così? Più che se perdessi il padre, io
perdo! Perdo Te...». «Non mi perdi poiché continui a volermi bene. É perduto
uno che è da noi separato dalla dimenticanza sulla Terra e dal giudizio di Dio
nell'al di là. Ma noi non saremo separati. Mai. Né da questo, né da quello». Ma
Giovanni non intende ragioni. Simone si fa ancora più vicino a Gesù e gli
confida sottovoce: «Maestro... io... io e Simon Pietro speravamo di fare
qualche cosa di buono... Ma... Tu che sai tutto, dimmi: fra quante ore pensi
essere catturato?». «Non appena la luna è al colmo del suo arco». Simone ha un
atto di dolore e di impazienza, per non dire di stizza. «Allora tutto fu
inutile... Maestro, ora ti spiego. Tu hai quasi rimproverato me e Simon Pietro
per averti lasciato tanto solo in questi ultimi giorni... Ma eravamo lontani
per Te... per amore di Te. Pietro, nella notte del lunedì, impressionato dalle
tue parole, è venuto da me mentre dormivo e mi ha detto: "Io e te, di te
mi fido, dobbiamo fare qualche cosa per Gesù. Anche Giuda ha detto di volersene
occupare". Oh! perché non abbiamo capito allora? Perché non ci hai detto
nulla Tu? Ma, dimmi, a nessuno lo hai detto? Proprio a nessuno? Forse lo hai
compreso solo poche ore fa?». «L'ho sempre saputo. Prima ancora che egli fosse
nei discepoli. E perché il suo delitto non fosse perfetto, e nel divino e
nell'umano, ho cercato in tutti i modi di allontanarlo da Me. Coloro che
vogliono che Io muoia sono i carnefici di Dio. Questo, mio discepolo e amico, è
anche il traditore, il carnefice dell'Uomo. Il mio primo carnefice, perché mi
ha già fatto morto con lo sforzo di averlo al fianco, alla mensa, e di doverlo
proteggere con Me stesso contro voi». «E nessuno lo sa?». «Giovanni. Gliel'ho
detto alla fine della Cena. Ma che avete fatto?». «E Lazzaro? Non sa proprio
nulla Lazzaro? Oggi fummo da lui, perché egli è venuto di prima mattina, ha
sacrificato ed è ripartito senza neppure fermarsi al suo palazzo né andare al
Pretorio. Perché lui ci va sempre, per consuetudine presa dal padre. E Pilato,
lo sai, c'è in città, in questi giorni...». «Sì. Tutti ci sono. C'è Roma, la
nuova Sionne, con Pilato. C'è Israele con Caifa ed Erode. C'è tutto Israele,
perché la Pasqua ha raccolto i figli di questo popolo ai piedi dell'altare di
Dio... Hai visto Gamaliele?». «Si. Perché questa domanda? Lo devo rivedere
anche domani...». «Gamaliele questa sera è a Betfage. Lo so. Quando saremo
giunti al Getsemani tu andrai da Gamaliele e gli dirai: "Fra poco avrai il
segno che attendi da ventun'anni". Null'altro. Poi tornerai coi compagni».
«Ma come lo sai? Oh! Maestro mio, povero Maestro che non hai neppure il
conforto di ignorare le opere altrui!». «Dici bene! Il conforto di ignorare!
Povero Maestro! Perché sono più le opere malvagie delle buone. Ma vedo anche
quelle buone e ne giubilo». «Allora Tu sai che...». «Simone, è la mia ora di
passione. Per renderla più completa il Padre mi ritira la luce man mano che si
approssima. Fra poco non avrò che tenebre e la contemplazione di ciò che è
tenebre: ossia tutti i peccati degli uomini. Non puoi, non potete capire.
Nessuno, meno chi sarà a ciò chiamato da Dio per speciale missione, comprenderà
questa passione nella grande Passione e, poi che l'uomo è materiale anche
nell'amare e nel meditare, ci sarà chi piangerà e soffrirà per le mie battiture,
per le torture del Redentore, ma non si misurerà questa spirituale tortura che,
credetelo voi che mi udite, sarà la più atroce... Parla, perciò, Simone.
Guidami sui sentieri dove la tua amicizia andò per Me, perché Io sono un povero
che accieca e che vede fantasmi, non cose reali...». Giovanni lo strige e
chiede: «Che? Non vedi più il tuo Giovanni?». «Ti vedo. Ma i fantasmi sorgono
dalle nebbie di Satana. Visioni d'incubo e dolore. Tutti siamo avvolti in
questo miasma d'inferno, questa sera. In Me cerca di creare viltà,
disubbidienza e dolore. In, voi creerà delusione e paura. In altri, che pure
non sono né paurosi né delinquenti, darà delinquenza e pavidità. In altri, che
già sono di Satana, darà il pervertimento soprannaturale. Dico così perché la loro
perfezione nel male sarà tale da superare le umane possibilità e raggiungere il
perfetto che è sempre nel sopraumano. Parla, Simone». «Sì. Da martedì non
facciamo che andare per sapere, per prevenire, per cercare aiuti». «E che avete
potuto fare?». «Nulla. O ben poco». «E il poco sarà "nulla" quando la
paura paralizzerà i cuori». «Mi sono anche urtato con Lazzaro... La prima volta
che mi avviene... Urtato, perché mi parve inerte... Lui potrebbe fare. É amico
del Governatore. E sempre il figlio di Teofilo! Ma Lazzaro ha respinto ogni mia
proposta. L'ho lasciato urlando: "Io penso che l'amico di cui parla il
Maestro sia tu. Mi fai orrore!", e non volevo più tornare da lui... Ma
questa mattina egli mi ha chiamato e detto: "Puoi ancora pensare che sia
io il suo traditore?". Io avevo già visto Gamaliele e Giuseppe e Cusa, e
Nicodemo e Mannaen, ed infine tuo fratello Giuseppe... e non potevo più credere
questo. Gli ho detto: "Perdona, Lazzaro. Ma mi sento la mente sconvolta
più di quando ero io stesso un condannato". Ed è così, Maestro... Io non
sono più io... Ma perché sorridi?». «Perché ciò conferma quanto Io ti ho detto
prima. La nebbia di Satana ti avvolge e turba. Che ha risposto Lazzaro?». «Ha
detto: "Ti capisco. Vieni oggi, con Nicodemo. Ho bisogno di vederti".
E sono andato, mentre Simon Pietro è andato dai galilei. Perché tuo fratello,
lui, da tanto lontano, ne sa più di noi. Dice che lo ha saputo per caso
parlando con un vecchio galileo, amico di Alfeo e Giuseppe, che abita vicino ai
mercati». «Ah!... sì... Un grande amico della casa...». «Egli è là con Simone e
le donne. Vi è anche la famiglia di Cana». «Ho visto Simone». «Ebbene, Giuseppe
da questo suo amico e amico di uno del Tempio, che è divenuto suo parente per
donne, ha saputo che è decisa la tua cattura e ha detto a Pietro: "Io l'ho
sempre combattuto. Ma per amore. E finché Egli era ancora forte. Ma, ora che
diventa come un bambino in preda dei suoi nemici, io, parente che sempre l'ho
amato, sono con Lui. É dovere di sangue e di cuore"». Gesù sorride,
riavendo per un attimo il viso sereno delle ore di gioia. «E Giuseppe ha detto
a Pietro: "I farisei di Galilea sono aspidi come tutti i farisei. Ma la
Galilea non è tutta farisei. E qui sono molti galilei che lo amano. Andiamo a
dire loro di radunarsi per difenderlo. Non abbiamo che i coltelli. Ma anche i
bastoni sono armi, se ben maneggiati. E, se non vengono le milizie romane,
avremo presto ragione di quella canaglia vile che sono gli sgherri del
Tempio". E Pietro è andato con lui. Io intanto andavo da Lazzaro. Con
Nicodemo. Avevamo deciso di persuadere Lazzaro a venire con noi e ad aprire la
sua casa per stare con Te. Ci ha detto: "Devo ubbidire a Gesù e stare qui.
A soffrire il doppio...". É vero?». « È vero. Io gli ho dato questo ordine».
«Però mi ha dato le spade. Sono sue. Una per me, una per Pietro. Anche Cusa
voleva darmi le spade. Ma... Che sono due pezzi di ferro contro tutto un mondo?
Cusa non può credere che sia vero quanto Tu dici. Giura che egli non sa nulla e
che nella corte non c'è che il pensiero di godere della festa... Un bagordo
come al solito. Tanto che egli ha detto a Giovanna di ritirarsi in una loro
casa in Giudea. Ma Giovanna vuole rimanere qui. Chiusa nel suo palazzo, come se
non ci fosse. Ma non si allontana. É con lei Plautina, Anna, Niche e due dame
romane della casa di Claudia. Piangono, pregano e fanno pregare gli innocenti.
Ma non è tempo di preghiere. Di sangue è tempo. Io sento tornare vivo lo
"zelote" e ardo di uccidere per fare vendetta!...». «Simone! Se volevo
farti morire maledetto, non ti levavo alla desolazione...». Gesù è severissimo.
«Oh! perdono, Maestro... Perdono! Sono come un ebbro, un delirante». «E Mannaen
che dice?». «Mannaen dice che non può essere vero e che, se lo fosse, egli ti
seguirà anche nel supplizio». «Come tutti fidate di voi!... Quanta superbia è
nell'uomo! E Nicodemo e Giuseppe? Che sanno?». «Nulla più di me. Tempo fa in
una assemblea Giuseppe si prese col Sinedrio, perché li chiamò assassini
volendo uccidere un innocente, e disse: "Tutto è illegale qui dentro. Lui
dice bene. L'abbominio è nella casa del Signore. Questo altare va distrutto
perché profanato". Non lo lapidarono perché è lui. Ma da allora lo hanno
tenuto all'oscuro di tutto. Solo Gamaliele e Nicodemo gli si sono conservati
amici. Ma il primo non parla. E il secondo... Né lui né Giuseppe furono più
chiamati al Sinedrio per le decisioni più vere. Esso si aduna illegalmente qua
e là, ad ore diverse, per paura di loro e di Roma. Ah! dimenticavo!... I
pastori. Anche loro sono coi galilei. Ma pochi siamo! Se Lazzaro avesse voluto
ascoltarci e venire dal Pretore! Ma non ci ascoltò... Questo abbiamo fatto...
Molto... e nulla... e io sono tanto accasciato che vorrei andare per la
campagna urlando come uno sciacallo, abbrutendomi in un'orgia, uccidendo come
un brigante, pur di levarmi questo pensiero che è "tutto inutile",
come ha detto Lazzaro, come ha detto Giuseppe e Cusa e Mannaen e Gamaliele...».
Lo Zelote non sembra più lui... «Che ha detto il rabbi?». «Ha detto: "Io
non so esattamente i propositi di Caifa. Ma vi dico che solo per il Cristo è
profetizzato quanto dite. E siccome io non ammetto in questo profeta il Cristo,
non trovo ci sia da agitarsi. Verrà ucciso un uomo, buono, amico di Dio. Ma di
quanti suoi simili ha bevuto il sangue Sionne?!". E poiché noi insistevamo
sulla tua divina Natura, ha ripetuto cocciuto: "Quando vedrò il segno,
crederò". Ed ha promesso di astenersi dal votare la tua morte, e anzi, se
sarà possibile, di persuadere gli altri a non condannarti. Questo, non più. Non
crede! Non crede! Se si potesse giungere a domani... Ma Tu dici di no. Oh! che
faremo noi?!». «Tu andrai da Lazzaro e cercherai di portare con te quanti più
puoi. Non solo degli apostoli. Ma anche dei discepoli che troverai vaganti per
le vie della campagna. Cerca di vedere i pastori e da' loro questo ordine. La
casa di Betania è più che mai la casa di Betania, la casa della buona
ospitalità. Quelli che non hanno coraggio di affrontare l'odio di tutto un
popolo si rifugino là. Ad attendere...». «Ma noi non ti lasceremo». «Non vi
separate... Divisi, sareste un nulla. Uniti, sarete ancora una forza. Simone,
promettimi questo. Tu sei pacato, fedele, hai parola e impero anche su Pietro.
E hai un grande obbligo con Me. Te lo ricordo per la prima volta, per importi
l'ubbidienza. Guarda, siamo al Cedron. Di lì sei salito a Me lebbroso e di lì
sei partito mondato. Per quello che ti ho dato, dammi. Dàllo all'Uomo ciò che
Io ho dato all'uomo. Ora il lebbroso sono Io...». «Nooo! Non lo dire!», gemono
insieme i due discepoli. «Così è! Pietro, i fratelli miei saranno i più
accasciati. Come un delinquente si sentirà l'onesto mio Pietro e non avrà pace.
E i fratelli... Non avranno cuore di guardare la loro e la mia Madre... Te li
raccomando...». «Ed io, Signore, di chi sarò? A me non pensi?» «O mio
fanciullo! Tu sei affidato al tuo amore. E tanto forte che ti guiderà come una
madre. Non ti do ordine né guida. Ti lascio sulle acque dell'amore. Sono in te
un fiume tanto calmo e profondo che non mi mettono dubbio sul tuo domani.
Simone, hai inteso? Promettimi, promettimi!». É penoso vedere Gesù tanto
angosciato... Riprende: «Prima che vengano gli altri! Oh! grazie! Sii
benedetto!». Tutto il gruppo si riunisce. «Ora dividiamoci. Io salgo in alto, a
pregare. Con Me voglio Pietro, Giovanni e Giacomo. Voi rimanete qui. E, se
foste sopraffatti, chiamate. E non temete. Non vi sarà torto un capello.
Pregate per Me. Deponete odio e paura. Non sarà che un attimo... e poi la gioia
sarà piena. Sorridete. Che Io abbia nel cuore i vostri sorrisi. E ancora grazie
di tutto, amici. Addio. Il Signore non vi abbandoni...». Gesù si separa dagli
apostoli e va avanti, mentre Pietro si fa dare da Simone la torcia dopo che
questo ha acceso con essa degli sterpi resinosi, che bruciano scoppiettando sul
limite dell'uliveto e spandendo un odore di ginepro. Mi fa pena vedere il
Taddeo che guarda con uno sguardo talmente intenso e doloroso Gesù che questo
si volge e cerca chi lo ha guardato. Ma il Taddeo si nasconde dietro a
Bartolomeo e si morde le labbra per frenarsi. Gesù fa un gesto con la mano, fra
la benedizione e l'addio, e poi prosegue il suo cammino. La luna, ormai ben
alta, circonda della sua luce la sua alta figura e pare renderla anche più
alta, spiritualizzandola, facendone più chiara la veste rossa e più pallido
l'oro dei capelli. Dietro a Lui affrettano il passo Pietro con la torcia e i
due figli di Zebedeo. Proseguono sino a raggiungere il limite della prima balza
del rustico anfiteatro dell'uliveto, a cui fa da entrata la piazzuola
irregolare e da gradinate le diverse balze che ascendono a scaglioni di ulivi
sul monte, poi Gesù dice: «Fermatevi, attendetemi qui, mentre Io prego. Ma non
dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate! Il
vostro Maestro è molto accasciato». É infatti di un accasciamento già profondo.
Pare già aggravato da un peso. Dove è più il virile Gesù che parlava alle
folle, bello, forte, dall'occhio dominatore, il pacato sorriso, la voce sonora
e bellissima? Pare già preso da un affanno. É come uno che ha corso o che ha
pianto. Ha una voce stanca e affannata. Triste, triste, triste... Pietro
risponde per tutti: «Sta' tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai
che chiamarci, che verremo». E Gesù li lascia, mentre i tre si curvano a
radunare foglie e sterpi per fare un fuocherello che serva a tenerli desti e
anche a combattere la guazza che comincia a scendere abbondante. Cammina,
volgendo loro le spalle, da occidente a oriente, avendo perciò in faccia la
luce lunare. Vedo che un grande dolore fa ancor più dilatato l'occhio, forse è
un bistro di stanchezza che lo allarga, forse è l'ombra dell'arco
sopraccigliare. Non so. So che ha l'occhio più aperto e incavato. Sale a testa
china, solo ogni tanto la alza con un sospiro, come facesse fatica e anelasse,
e allora gira il suo occhio tanto triste sul placido uliveto. Fa qualche metro
in salita, poi gira intorno ad uno scaglione, che rimane così fra Lui e i tre
lasciati più in basso. Lo scaglione, alto pochi decimetri all'inizio, sale
sempre più e dopo poco è alto più di due metri, di modo che ripara
completamente Gesù da ogni sguardo più o meno discreto e amico. Gesù prosegue
sino ad un grosso masso che ad un certo punto sbarra il sentieruolo, forse
messo a sostegno alla costa che in giù scoscende più ripida e nuda sino ad una
desolata macia, che precede le mura oltre le quali è Gerusalemme, e in su
continua a salire con altri balzi e altri ulivi. Proprio sopra al grosso sasso
si spenzola un ulivo tutto nodoso e contorto. Pare un bizzarro punto interrogativo
messo dalla natura a chiedere qualche perché. I rami folti sulla cima danno
risposta alla domanda del tronco, dicendo ora di si col piegarsi verso terra,
ora di no dimenandosi da destra a manca, sotto un vento lieve che passa a
ondate fra le fronde e che a volte sa soltanto di terra, a volte di quell'odore
amarognolo dell'ulivo, alle volte di un misto profumo di rose e mughetti che
non si sa da dove possa venire. Oltre il sentieruolo, in basso, sono altri
ulivi, ed uno, proprio sotto al masso, fenduto da qualche fulmine eppure
sopravvissuto, o scosciato per non so che causa, ha del tronco iniziale fatto
due tronchi che salgono come le due aste di un grande V in stampatello, e le
due chiome si affacciano al di qua e al di là del masso, come volessero vedere
e velare nello stesso tempo, o far eI ad esso masso una base di un grigio
argento tutto pace. Gesù si ferma lì. Non guarda la città che appare là in
basso, tutta bianca nella luce lunare. Anzi le volge le spalle e prega a
braccia aperte a croce, col volto alzato verso il cielo. E non vedo il volto
suo perché è nell'ombra, avendo la luna quasi a perpendicolo sul capo, è vero,
ma anche la folta ramaglia dell'ulivo fra Lui e la luna, che appena filtra fra
foglia e foglia con occhiellini ed aghi di luce in perpetuo movimento. Una
lunga, ardente preghiera. Ogni tanto ha un sospiro e qualche parola più netta.
Non è un salmo, non è il Pater. E una preghiera fatta dallo sgorgare del suo
amore e del suo bisogno. Un vero discorso fatto al Padre suo. Lo comprendo per
le poche parole che afferro: «Tu lo sai... Sono il tuo Figlio... Tutto, ma
aiutami... L'ora è venuta... Io non sono più della Terra. Cessa ogni bisogno di
aiuto al tuo Verbo... Fa' che l'Uomo ti soddisfi come Redentore come ti fu
ubbidiente la Parola... Ciò che Tu vuoi... Per loro ti chiedo pietà... Li farò
salvi? Questo ti chiedo. Voglio così: dal mondo salvi, dalla carne, dal
demonio... Posso chiedere ancora? É giusta domanda, Padre mio. Non per Me. Per
l'uomo, che è tua creazione e che volle rendere fango anche la sua anima. Io
getto nel mio dolore e nel mio Sangue questo fango, perché torni
l'incorruttibile essenza dello spirito a Te gradito... Ed è dovunque. Egli è il
re questa sera. Nella reggia e nelle case. Fra le milizie e nel Tempio... La città
ne è colma, e domani sarà un inferno...». Gesù si volge, si appoggia con la
schiena al masso e incrocia le braccia. Guarda Gerusalemme. Il viso di Gesù si
fa sempre più mesto. Mormora: «Pare di neve... ed è tutta un peccato. Anche in
essa quanti ho guarito! Quanto ho parlato!... Dove sono quelli che mi parevano
fedeli?»... Gesù curva il capo e guarda fisso il terreno coperto di una erbetta
corta e lucida di guazza. Ma, per quanto abbia il capo chino, comprendo che
piange, perché delle gocce lucono nel cadere dal volto al suolo. Poi alza il
capo, disserra le braccia, le congiunge tenendole al disopra del capo e
agitandole così unite. Poi si incammina. Torna verso i tre apostoli seduti
intorno al loro fuocherello di sterpi. E li trova mezzo addormentati. Pietro si
è addossato ad un tronco con le spalle e, con le braccia conserte sul petto,
ciondola con la testa nelle prime caligini di un robusto sonno. Giacomo è
seduto, con il fratello, su un radicone che affiora e sul quale hanno messo i
mantelli per sentirne meno le gobbe, ma, nonostante siano scomodi più di
Pietro, sono anche loro sonnecchianti. Giacomo ha abbandonato la testa sulla
spalla di Giovanni e questo ha piegato la sua su quella del fratello, come se
il dormiveglia li avesse immobilizzati in quella posa. «Dormite? Non avete
saputo vegliare un'ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e delle
vostre preghiere!». I tre sobbalzano confusi. Si sfregano gli occhi. Mormorano
una scusa, accusando lo sforzo del digerire come causa prima di questo loro
sonnecchiare: «É il vino... il cibo... Ma ora passa. Un momento è stato. Non
avevamo voglia di parlare e questo ci ha portati al sonno. Ma ora pregheremo a
voce alta e non succederà più». «Sì. Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete
bisogno». «Sì, Maestro. Ti ubbidiremo». Gesù torna via. La luna che gli batte
in volto, così forte nel suo chiarore d'argento che rende sempre più pallida la
veste rossa come la velasse di una polvere bianco lucente, mi fa vedere il suo
volto sconfortato, addolorato, invecchiato. Lo sguardo è sempre dilatato, ma
pare appannato. La bocca ha una piega di stanchezza. Torna al suo masso ancor
più lento e curvo. Si inginocchia appoggiando le braccia al masso, che non è
liscio ma a mezza altezza ha come un seno, quasi fosse stato lavorato apposta
così, e su questo breve seno è nata una pianticina, che mi pare di quei
fioretti simili a piccoli gigli che ho visto anche in Italia, dalle fogliette
piccole, tonde ma dentellate agli orli e polpute e i fiorellini minuti sugli
esilissimi steli. Sembrano piccoli fiocchi nevosi spruzzanti il grigio del
masso e le fogliette verde scuro. Gesù appoggia le mani lì presso e i
fiorellini gli vellicano la guancia, perché Egli appoggia il capo sulle mani
giunte e prega. Dopo un poco sente il fresco delle piccole corolle, alza il
capo. Le guarda. Le carezza. Parla loro: «Voi siete pure!... Voi mi date
ristoro! C'erano anche nella grotticella della Mamma questi fiorellini... e Lei
li amava perché diceva: "Quando ero piccina, diceva mio padre: 'Tu sei un
giglio così piccino e tutto pieno di rugiada celeste"'... La Mamma! Oh!
Mamma mia!». Ha uno scoppio di pianto. Col capo sulle mani congiunte, ricaduto
un poco sui calcagni, lo vedo e l'odo piangere, mentre le mani stringono le
dita e le tormentano l'una all'altra. Sento che dice: «Anche a Betlemme... e te
li ho portati, Mamma. Ma questi, chi te li porterà più?...». Poi riprende a
pregare e a meditare. Deve essere ben triste la sua meditazione, angosciosa più
che triste, perché per sfuggirla Egli si alza, va avanti e indietro mormorando
parole che non afferro, alzando il volto, abbassandolo, gestendo, passandosi
sugli occhi, sulle gote, sui capelli, le mani con mosse macchinali e agitate,
proprie di chi è in grande angoscia. Dirlo non è niente. Descriverlo è
impossibile. Vederlo è andare nella sua angoscia. Gestisce verso Gerusalemme.
Poi torna ad alzare le braccia verso il cielo come per invocare aiuto. Si leva
il mantello come avesse caldo. Lo guarda... Ma che vede? I suoi occhi non
guardano altro che la sua tortura, e tutto serve a questa tortura, ad
aumentarla. Anche il mantello tessuto dalla Madre. Lo bacia e dice: «Perdono,
Mamma! Perdono!». Pare lo chieda alla stoffa filata e tessuta dall'amore di
mamma... Se lo rimette. É in uno strazio. Vuole pregare per superarlo. Ma con
la preghiera tornano i ricordi, le apprensioni, i dubbi, i rimpianti... E una
valanga di nomi... città... persone... fatti... Non posso seguirlo perché è
veloce e saltuario. È la sua vita evangelica che gli sfila davanti... e gli
riporta Giuda traditore. É tanto l'affanno che urla, per vincerlo, il nome di
Pietro e Giovanni. E dice: «Ora verranno. Sono ben fedeli loro!». Ma
"loro" non vengono. Chiama di nuovo. Pare terrorizzato come vedesse
chissà che. Fugge veloce verso il luogo dove è Pietro e i due fratelli. E li
trova più comodamente e pesantemente addormentati intorno a poche bragie che,
ormai morenti, hanno solo dei zig e zag di rosso fra il grigio della cenere.
«Pietro! Vi ho chiamati tre volte! Ma che fate? Dormite ancora? Ma non sentite
quanto soffro? Pregate. Che la carne non vinca, non vi vinca. In nessuno. Se lo
spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi...». I tre sono più lenti a
svegliarsi. Ma infine lo fanno e, con occhi imbambolati, si scusano. Si alzano,
prima mettendosi seduti, poi mettendosi proprio ritti. «Ma guarda!», mormora
Pietro. «Non ci è mai accaduto! Deve essere proprio stato quel vino. Era forte.
E anche questo fresco. Ci si è coperti per non sentirlo (infatti si erano
coperti coi mantelli anche sul capo) e non si è più visto il fuoco, non si è
avuto più freddo, ed ecco che il sonno è venuto. Dici che hai chiamato? Eppure
non mi pareva di dormire tanto forte... Su, Giovanni, cerchiamo dei rametti,
muoviamoci. Ci passerà. Sta' sicuro, Maestro, che ora poi!... Resteremo in
piedi...», e getta una manata di fogliette secche sulle bragie, e soffia finché
la fiamma risuscita, e la alimenta con i rami di rovo portati da Giovanni,
mentre Giacomo porta un grosso ramo di ginepro, o simile pianta, che ha tagliato
da un macchione poco discosto, e lo unisce al resto. La fiamma si alza alta e
gioconda illuminando il povero viso di Gesù. Un viso veramente di una tristezza
che non si può guardare senza piangere. Ogni fulgore di quel volto è annullato
in una stanchezza mortale. Dice: «Sono in un'angoscia che mi uccide! Oh! sì!
L'anima mia è triste sino a morirne. Amici!... Amici! Amici!». Ma, se anche
così non dicesse, il suo aspetto direbbe che Egli è proprio come uno che muore,
e nel più angoscioso e desolato abbandono. Pare che ogni parola sia un
singhiozzo... Ma i tre sono troppo carichi di sonno. Sembrano quasi ebbri tanto
vanno traballando ad occhi semichiusi... Gesù li guarda... Non li mortifica con
rimproveri. Scuote il capo, sospira e torna via. Al posto di prima. Prega di
nuovo in piedi, con le braccia in croce. Poi in ginocchio come prima, col volto
curvo sui piccoli fiori. Pensa. Tace... Poi si dà a gemere e singhiozzare
forte, quasi prostrato tanto è rilassato sui calcagni. Chiama il Padre. Sempre
più affannosamente... «Oh!», dice. «É troppo amaro questo calice! Non posso!
Non posso! É al di sopra di quanto Io posso. Tutto ho potuto! Ma non questo...
Allontanalo, Padre, dal tuo Figlio! Pietà di Me!... Che ho fatto per
meritarlo?». Poi si riprende e dice: «Però, Padre mio, non ascoltare la mia
voce se essa chiede ciò che è contrario alla tua volontà. Non ricordarti che ti
sono Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta».
Rimane così qualche tempo. Poi ha un grido soffocato e alza un viso sconvolto.
Un attimo solo, poi piomba al suolo, proprio volto a terra, e resta così. Uno
straccio d'uomo su cui preme tutto il peccato del mondo, su cui si abbatte
tutta la Giustizia del Padre, su cui scende la tenebra, la cenere, il fiele,
quella tremenda, tremenda, tremendissima cosa che è l'abbandono di Dio mentre
Satana ci tortura... E l'asfissia dell'anima, è l'essere sepolti vivi in questa
carcere che è il mondo, quando non si può più sentire che fra noi e Dio vi è un
legame, è l'essere incatenati, imbavagliati, lapidati dalle nostre preghiere
stesse che ci ricadono addosso irte di punte e sparse di fuoco, è il dare di
cozzo contro un Cielo chiuso in cui non penetrano né voce né sguardi della
nostra angoscia, è l'essere "orfani di Dio", è la pazzia, l'agonia,
il dubbio d'essersi sino allora ingannati, è la persuasione di essere scacciati
da Dio, di esser dannati. E’ l'inferno!... Oh! lo so! e non posso, non posso
vedere lo spasimo del mio Cristo, e sapere che esso è un milione di volte più
atroce di quello che mi ha consumata lo scorso anno e che, quando mi torna alla
mente, mi sconvolge ancora... Gesù geme, fra rantoli e sospiri proprio
d'agonia: «Niente!... Niente!... Via!... La volontà del Padre! Quella! Quella
sola!... La tua volontà, Padre. La tua, non la mia... Inutile. Non ho che un
Signore: Iddio santissimo. Una legge: l'ubbidienza. Un amore: la redenzione...
No. Non ho più Madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più
missione. Inutilmente mi tenti, demonio, con la Madre, la vita, la mia
divinità, la mia missione. Ho per madre l'Umanità e l'amo sino a morire per
lei. La vita la rendo a Chi me l'ha data e me la chiede, supremo Padrone di
ogni vivente. La divinità l'affermo essendo capace di questa espiazione. La
missione la compio con la mia morte. Nulla ho più. Fuorché fare la volontà del
Signore, mio Dio. Va' indietro, Satana! L'ho detto la prima e la seconda volta.
Lo ri-dico per la terza: "Padre, se è possibile passi da Me questo calice.
Ma però non la mia, la tua volontà sia fatta". Va' indietro, Satana. Io
sono di Dio». Poi non parla più altro che per dire fra gli ansiti: «Dio! Dio!
Dio!». Lo chiama ad ogni battito di cuore, e pare che ad ogni battito il sangue
trabocchi. La stoffa tesa sulle spalle se ne imbibisce e torna scura, nonostante
il grande chiarore lunare che lo fascia tutto. Pure un chiarore più vivo si
forma sul suo capo, sospeso a circa un metro da Lui, un chiarore così vivo che
anche il Prostrato lo vede filtrare fra le onde dei capelli, già pesanti di
sangue, e il velo che il sangue fa agli occhi. Alza il capo... Splende la luna
sul povero volto, e ancora più splende la luce angelica simile a quella del
diamante bianco azzurro della stella Venere. E appare tutta la tremenda agonia
nel sangue che trasuda dai pori. Le ciglia, i capelli, i baffi, la barba sono
aspersi e cospersi di sangue. Sangue cola dalle tempie, sangue sgorga dalle
vene del collo, sangue gocciano le mani, e quando Egli tende le mani verso la
luce angelica e le ampie maniche scorrono in su, verso i gomiti, appaiono tutti
sudanti sangue gli avambracci di Cristo. Nel viso, solo le lacrime fanno due
righe nette fra la maschera rossa. Si torna a levare il mantello e si asciuga
le mani, il volto, il collo, gli avambracci. Ma il sudore continua. Egli si
preme più e più volte la stoffa sul volto tenendola premuta con le mani, ed
ogni volta che cambia posto, sulla stoffa rosso scura appaiono nette le
impronte che, umide come sono, sembrano essere nere. L'erba del suolo è rossa
di sangue. Gesù pare prossimo a mancare. Si slaccia la veste al collo come si
sentisse soffocare. Si porta la mano al cuore e poi al capo e se l'agita
davanti al volto come per farsi vento, tenendo la bocca dischiusa. Si trascina
contro il masso, ma più verso lo scrimolo del balzo, e si appoggia con la
schiena ad esso, stando con le braccia pendenti lungo il corpo come fosse già
morto, la testa penzoloni sul petto. Non si muove più. La luce angelica
decresce piano piano. Poi viene come assorbita nel chiarore lunare. Gesù riapre
gli occhi. Alza a fatica il capo. Guarda. E’ solo. Ma è meno angosciato.
Allunga una mano. Tira a Sé il mantello, lasciato abbandonato sull'erba, e
torna ad asciugarsi il volto, le mani, il collo, la barba, i capelli. Prende
una larga foglia, nata proprio in riva al ciglio, tutta bagnata di guazza, e
con quella finisce di pulirsi, bagnandosi volto e mani e poi asciugandosi da
capo. E ripete, ripete con altre foglie, finché ha cancellato le tracce del suo
tremendo sudore. Solo la veste, e specie sulle spalle e alle pieghe dei gomiti,
al collo e alla cintura, ai ginocchi, è macchiata. Se la guarda e scuote il
capo. Guarda anche il mantello. Ma lo vede troppo macchiato. Lo piega e lo pone
sul masso, là dove esso fa cuna, presso i fioretti. Con fatica, come per
debolezza, si rigira mettendosi in ginocchio. Prega appoggiando il capo sul
mantello, su cui sono già le mani. Poi si puntella al masso, si alza e, ancora
lievemente barcollando, va dai discepoli. Il suo viso è pallidissimo. Ma non è
più turbato. E un viso pieno di divina bellezza, pure essendo esangue e mesto
oltre il solito. I tre dormono saporitamente. Tutti avvolti nei mantelli,
sdraiati affatto, presso il fuoco spento, si sentono respirare profondamente in
un principio di sonoro russare. Gesù li chiama. Inutile. Deve chinarsi e
scuotere generosamente Pietro. «Cosa è? Chi mi arresta?», dice questo
emergendo, sbalordito e spaventato, dal suo mantello verde scuro. «Nessuno.
Sono Io che ti chiamo». «É mattina?». «No. É quasi terminata la seconda
vigilia». Pietro è tutto ingranchito. Gesù scuote Giovanni, che ha un grido di
terrore vedendo su di lui curvo un volto di fantasma tanto è marmoreo. «Oh!...
Mi parevi morto!». Scuote Giacomo, e questo, che crede che sia il fratello che
lo chiama, dice: «Hanno preso il Maestro?». «Non ancora, Giacomo», risponde
Gesù. «Ma alzatevi ormai e andiamo. Chi mi tradisce è vicino». I tre, ancora
imbambolati, si alzano. Si guardano intorno... Ulivi, luna, usignoli,
venticello, pace... Null'altro. Seguono però Gesù senza parlare. Anche gli altri
otto sono più o meno addormentati intorno al fuoco spento. «Sorgete! », tuona
Gesù. «Mentre Satana viene, mostrate all'insonne e ai suoi figli che i figli di
Dio non dormono!». «Sì, Maestro». «Dove è, Maestro?». «Gesù, io...». «Ma che è
stato?». E fra arruffate domande e risposte si rimettono i mantelli... Appena
in tempo per apparire in ordine alla sbirraglia capitanata da Giuda, che
irrompe nella quieta piazzuola illuminandola violentemente con molte torce
accese. Sono un'orda di banditi camuffati da soldati, facce da galera torte in
ghigni da demoni. Vi è anche qualche campione del Tempio. Gli apostoli balzano
tutti in un angolo. Pietro davanti, e dietro in gruppo gli altri. Gesù resta
dove è. Giuda si accosta sostenendo lo sguardo di Gesù, che è tornato il
lampeggiante sguardo dei suoi giorni migliori. E non abbassa il volto. Anzi si
fa vicino con un sorriso da iena e lo bacia sulla guancia destra,. «Amico, e
che sei venuto a fare? Con un bacio mi tradisci?». Giuda curva per un attimo la
testa, poi la rialza... Morto al rimprovero come ad ogni invito al pentimento.
Gesù, dopo le prime parole ancora dette con imponenza di Maestro, prende il
tono accorato di chi si rassegna ad una sventura. La sbirraglia, con un clamore
di urla, viene avanti con funi e bastoni e cerca di impadronirsi degli
apostoli, oltre che di Cristo. Meno Giuda Iscariota, si intende. «Chi
cercate?», chiede Gesù calmo e solenne. «Gesù Nazareno». «Sono Io». La voce è
un tuono. Davanti al mondo assassino e a quello innocente, davanti alla natura
e alle stelle, Gesù si rende questa testimonianza, aperta, leale, sicura, direi
che è lieto di potersela dare. Ma, se avesse sprigionato un fulmine, non
avrebbe potuto fare di più. Come un fascio di spighe falciate, tutti cadono al
suolo. Restano in piedi solo Giuda, Gesù e gli apostoli, che davanti allo
spettacolo dei soldati abbattuti riprendono fiato, tanto che si avvicinano a
Gesù con delle minacce così esplicite per Giuda che questo fa un balzo, appena
in tempo per sfuggire al colpo maestro della spada di Simone, e invano
inseguito da pietre e bastoni, lanciatigli dietro dagli apostoli non armati di
spada, fugge oltre il Cedron e si infosca nel nero di un viottolo. «Alzatevi.
Chi cercate? Torno a chiedervi». «Gesù Nazareno». «Ve l'ho detto che sono Io»,
dice con dolcezza Gesù. Si, con dolcezza. «Lasciate dunque liberi questi altri.
Io vengo. Riponete le spade e i bastoni. Non sono un ladrone. Stavo sempre fra
voi. Perché non mi avete preso allora? Ma questa è la vostra ora e quella di
Satana...». Ma, mentre parla, Pietro si accosta all'uomo che già tende le funi
per legare Gesù e mena un maldestro colpo di spada. Se l'avesse usata di punta,
lo sgozzava come un montone. Così non fa che staccargli quasi l'orecchio, che
resta penzoloni fra un gran gemere di sangue. L'uomo grida dicendosi morto. Vi
è tumulto fra chi vuol venire avanti e chi ha paura vedendo luccicare spade e
pugnali. «Riponete quelle armi. Ve lo comando. Se volessi, avrei gli angeli del
Padre a difendermi. E tu, guarisci. Nell'anima per prima cosa, se puoi». E,
prima di tendere le mani alle corde, tocca l'orecchio e lo rende sano. Gli
apostoli hanno urli scomposti... Sì. Mi spiace dirlo ma è così. Chi dice una
cosa, chi l'altra. Chi urla: «Ci hai traditi!», e chi: «Ma è folle!», e chi dice:
«E chi ti può credere?». Chi non urla, fugge... E Gesù resta solo... Lui e gli
sgherri... E incomincia il cammino...
603. Riflessioni sull'agonia
nel Getsemani e premessa agli altri dolori della Passione.
15 febbraio 1944. Maria
Valtorta
Dice Gesù: «La sofferenza della mia agonia spirituale tu l'hai
contemplata nella sera del Giovedì. Hai visto il tuo Gesù accasciarsi come uomo
colpito a morte che sente fuggire la vita attraverso le ferite che lo svenano,
o come creatura soverchiata da un trauma psichico superiore alle sue forze. Ne
hai visto le fasi crescenti, di questo trauma, culminate nell'effusione
sanguigna, provocata dallo squilibrio circolatorio causato dallo sforzo di
vincermi e di resistere al peso che mi si era abbattuto sopra. Io ero, sono, il
Figlio del Dio altissimo. Ma ero anche il Figlio dell'uomo. Da queste pagine
voglio che sgorghi nitida questa mia duplice natura, ugualmente totale e
perfetta. Della mia Divinità vi fa fede la mia parola, la quale ha accenti che
solo un Dio può avere. Della mia Umanità i bisogni, le passioni, le sofferenze
che vi presento e che patii nella mia carne di vero Uomo, proposta a modello
della vostra umanità, così come vi istruisco lo spirito con la mia dottrina di
vero Dio. Tanto la mia santissima Divinità come la mia perfettissima Umanità,
nel corso dei secoli e per l'azione disgregante della "vostra"
umanità imperfetta, sono risultate menomate, svisate nella loro illustrazione.
Avete resa irreale la mia Umanità, l'avete resa inumana, così come avete resa
piccola la mia figura divina, negandola in tante parti che non vi faceva comodo
riconoscere o che non potevate più riconoscere con i vostri spiriti, menomati
dalle tabi del vizio e dell'ateismo, dell'umanismo, del razionalismo. Io vengo,
in quest'ora tragica, prodromo di universali sventure, vengo a rinfrescarvi
nella mente la mia duplice figura di Dio e di Uomo, perché voi la conosciate
quale Essa è, perché voi la riconosciate dopo tanto oscurantismo con cui
l'avete coperta ai vostri spiriti, perché voi la amiate e torniate ad Essa e vi
salviate per mezzo di Essa. É la figura del vostro Salvatore, e chi la
conoscerà e l'amerà sarà salvo. In questi giorni ti ho fatto conoscere le mie
sofferenze fisiche. Esse hanno torturato la mia Umanità. Ti ho fatto conoscere
le mie sofferenze morali, connesse, intrecciate, fuse a quelle della Madre mia,
così come sono le inestricabili liane delle foreste equatoriali, che non si
possono separare per reciderne una sola, ma che si deve spezzarle con un unico
colpo d'accetta per aprirsi il varco, uccidendole insieme; così come sono le
vene di un corpo, che non se ne può privare di sangue una perché un unico umore
le empie; così, meglio ancora, così come non si può impedire che nella
creatura, che si forma nel seno della madre, entri la morte se la madre muore,
perché è la vita, il calore, il nutrimento, il sangue della madre quello che,
con ritmo sonante sul moto del materno cuore, penetra, attraverso le interne
membrane, sino al nascituro e lo completa alla vita. Ella, oh! Ella, la pura
Madre mia, mi ha portato non solo per i nove mesi con cui ogni femmina d'uomo
porta il frutto dell'uomo, ma per tutta la vita. I nostri cuori erano uniti da
spirituali fibre e hanno palpitato insieme sempre, e non c'era lacrima materna
che cadesse senza rigarmi il cuore del suo salso, e non c'era mio interno
lamento che non risuonasse in Lei svegliando il suo dolore. Vi fa pena la madre
di un figlio destinato alla morte per morbo insanabile, la madre di un
condannato al supplizio dal rigore dell'umana giustizia. Ma pensate a questa
Madre mia, che dal momento in cui mi ha concepito ha tremato pensando che ero
il Condannato, a questa Madre che quando m'ha dato il primo bacio sulle carni
morbide e rosee di neonato ha sentito le future piaghe della sua Creatura, a
questa Madre che avrebbe dato dieci, cento, mille volte la sua vita per
impedirmi di divenire Uomo e di giungere al momento dell'Immolazione, a questa
Madre che sapeva e che doveva desiderare quell'ora tremenda per accettare la
volontà del Signore, per la gloria del Signore, per bontà verso l'Umanità. No,
non vi è stata agonia più lunga, e finita in un dolore più grande, di quella
della Madre mia. E non vi è stato un dolore più grande, più completo del mio.
Ero Uno col Padre. Egli mi aveva dall'eternità amato come solo Dio può amare.
Si era compiaciuto di Me ed aveva trovato in Me la sua divina gioia. Ed Io
l'avevo amato come solo un Dio può amare, e trovato nell 'unione con Lui la mia
gioia divina. Gli ineffabili rapporti che legano ab eterno il Padre col Figlio
non possono esservi spiegati neppure dalla mia parola, perché, se essa è
perfetta, la vostra intelligenza non lo è, e non potete comprendere e conoscere
ciò che è Dio finché non siete seco Lui nel Cielo. Ebbene, Io sentivo, come
acqua che monta e preme contro una diga, crescere, ora per ora, il rigore del
Padre verso di Me. A testimonianza contro gli uomini-bruti, che non volevano
comprendere chi ero, Egli aveva aperto, durante il tempo della mia vita
pubblica, tre volte il Cielo: al Giordano, al Tabor e in Gerusalemme nella
vigilia della Passione. Ma l'aveva fatto per gli uomini, non per dare sollievo
a Me. Io ormai ero l'Espiatore. Molte volte, Maria, Dio fa conoscere agli
uomini un suo servo perché essi ne siano scossi e trascinati, attraverso esso,
a Lui, ma ciò avviene anche attraverso il dolore di quel servo. È desso che
paga in proprio, mangiando il pane amaro del rigore di Dio, i conforti e la
salvezza dei fratelli. Non è vero? Le vittime d'espiazione conoscono il rigore
di Dio. Poi viene la gloria. Ma dopo che la Giustizia è placata. Non è come per
il mio Amore, che alle sue vittime dà i suoi baci. Io sono Gesù, Io sono il
Redentore, Colui che ha sofferto e sa, per personale esperienza, cosa sia il
dolore d'esser guardato con severità da Dio ed essere abbandonato da Lui, e non
sono mai severo, e non abbandono mai. Consumo ugualmente, ma in un incendio
d'amore. Più l'ora dell'espiazione si avvicinava e più Io sentivo allontanarsi
il Padre. Sempre più separato dal Padre, la mia Umanità si sentiva sempre meno
sorretta dalla Divinità di Dio. E ne soffrivo in tutte le maniere. La
separazione da Dio porta seco paura, porta seco attaccamento alla vita, porta
seco languore, stanchezza, tedio. Più è profonda e più sono forti queste sue
conseguenze. Quando è totale, porta disperazione. E quanto più chi, per un
decreto di Dio, la prova senza averla meritata, più ne soffre, perché lo
spirito vivo sente la recisione da Dio così come una carne viva sente la
recisione di un arto. E uno stupore doloroso, accasciante, che chi non l'ha
provato non intende. Io l'ho provato. Tutto ho dovuto conoscere per potere di
tutto perorare presso il Padre in vostro favore. Anche le vostre disperazioni.
Oh, Io l'ho provato cosa vuol dire: "Sono solo. Tutti mi hanno tradito,
abbandonato. Anche il Padre, anche Dio non m'aiuta più". Ed è per questo
che opero misteriosi prodigi di grazia presso i poveri cuori che la
disperazione soverchia, e che chiedo ai miei prediletti di bere il mio calice
così amaro di esperienza, perché essi, coloro che naufragano nel mare della
disperazione, non ricusino la croce che offro per àncora e per salvezza, ma vi
si afferrino ed Io li possa portare alla beata riva dove non vive che pace.
Nella sera del Giovedì, Io solo so se avrei avuto bisogno del Padre! Ero uno
spirito già agonizzante per lo sforzo di aver dovuto superare i due più grandi
dolori di un uomo: l'addio ad una madre amatissima, la vicinanza dell'amico
infedele. Erano due piaghe che mi bruciavano il cuore. Una col suo pianto,
l'altra col suo odio. Avevo dovuto spezzare il mio pane col mio Caino. Avevo
dovuto parlargli da amico per non accusarlo agli altri, della cui violenza non
ero sicuro, e per impedire un delitto, inutile d'altronde poiché tutto era già
segnato nel gran libro della vita: e la mia Morte santa, ed il suicidio di
Giuda. Inutili altre morti riprovate da Dio. Nessuno altro sangue che non fosse
il mio doveva esser sparso, e sparso non fu. Il capestro strozzò quella vita
chiudendo nel sacco immondo del corpo del traditore il suo sangue impuro venduto
a Satana, sangue che non doveva mescolarsi, cadendo sulla Terra, al Sangue
purissimo dell'Innocente. Sarebbero bastate quelle due piaghe a fare di Me un
agonizzante nel mio Io. Ma ero l'Espiatore, la Vittima, l'Agnello. L'agnello,
prima d'esser immolato, conosce il marchio rovente, conosce le percosse,
conosce lo spogliamento, conosce la vendita al beccaio. Solo per ultimo conosce
il gelo del coltello che penetra nella gola e svena e uccide. Prima deve
lasciare tutto: il pascolo dove è cresciuto, la madre al cui petto si è nutrito
e scaldato, i compagni con cui ha vissuto. Tutto. Io ho conosciuto tutto: Io,
Agnello di Dio. Perciò è venuto Satana, mentre il Padre si ritirava nei Cieli.
Era già venuto all'inizio della mia missione, a tentarmi per sviarmi da essa.
Ora tornava. Era la sua ora. L'ora della tregenda satanica. Torme e torme di
demoni erano quella notte sulla Terra, per portare a termine la seduzione nei
cuori e farli pronti a volere il domani l'uccisione del Cristo. Ogni sinedrista
aveva il suo, e il suo Erode, e il suo Pilato, e il suo ogni singolo giudeo che
avrebbe invocato su lui il mio Sangue. Anche gli apostoli avevano il loro
tentatore al fianco, che li assopiva mentre Io languivo, che li preparava alla
viltà. Osserva il potere della purezza. Giovanni, il puro, si liberò primo fra
tutti della grinfia demoniaca e tornò subito presso il suo Gesù e lo comprese
nel suo inespresso desiderio, e mi condusse Maria. Ma Giuda aveva Lucifero, ed
Io avevo Lucifero. Egli nel cuore, Io al fianco. Eravamo i due principali
personaggi della tragedia, e Satana si occupava personalmente di noi. Dopo aver
condotto Giuda al punto di non potere più retrocedere, si volse a Me. Con la
sua astuzia perfetta, mi presentò le torture della carne con un verismo insuperabile.
Anche nel deserto aveva cominciato dalla carne. Lo vinsi pregando. Lo spirito
signoreggiò le paure della carne. Mi presentò allora l'inutilità del mio
morire, l'utilità di vivere per Me stesso senza occuparmi degli uomini ingrati.
Vivere ricco, felice, amato. Vivere per la Madre mia, per non farla soffrire.
Vivere per portare a Dio con un lungo apostolato tanti uomini, i quali, una
volta Io morto, m'avrebbero dimenticato, mentre se fossi stato Maestro non per
tre anni ma per lustri e lustri avrebbero finito ad immedesimarsi della mia
dottrina. I suoi angeli mi avrebbero aiutato a sedurre gli uomini. Non vedevo
che gli angeli di Dio non intervenivano nell'aiutarmi? Dopo, Dio mi avrebbe
perdonato vedendo la messe di credenti che gli avrei portato. Anche nel deserto
m'aveva indotto a tentare Iddio con l'imprudenza. Lo vinsi con la preghiera. Lo
spirito signoreggiò la tentazione morale. Mi presentò l'abbandono di Dio. Egli,
il Padre, non mi amava più. Ero carico dei peccati del mondo. Gli facevo
ribrezzo. Era assente, mi lasciava solo. Mi abbandonava al ludibrio di una
folla feroce. E non mi concedeva neppure il suo divino conforto. Solo, solo,
solo. In quell'ora non c'era che Satana presso il Cristo. Dio e gli uomini
erano assenti, perché non mi amavano. Mi odiavano o erano indifferenti. Io
pregavo per coprire col mio orare le parole sataniche. Ma la preghiera non
saliva più a Dio. Ricadeva su Me come le pietre della lapidazione e mi
schiacciava sotto la sua macia. La preghiera, che per Me era sempre carezza data
al Padre, voce che saliva, ed alla quale rispondeva carezza e parola paterna,
ora era morta, pesante, invano lanciata contro i Cieli chiusi. Allora sentii
l'amaro del fondo del calice. Il sapore della disperazione. Era questo che
voleva Satana. Portarmi a disperare per fare di Me un suo schiavo. Ho vinto la
disperazione e l'ho vinta con le sole mie forze, perché ho voluto vincerla. Con
le sole mie forze di Uomo. Non ero più che l'Uomo. E non ero più che un uomo
non più aiutato da Dio. Quando Dio aiuta è facile sollevare anche il mondo e
sostenerlo come giocattolo di bimbo. Ma quando Dio non aiuta più, anche il peso
di un fiore ci è faticoso. Ho vinto la disperazione, e Satana suo creatore, per
servire Dio e voi dandovi la Vita. Ma ho conosciuto la Morte. Non la morte
fisica del crocifisso - quella fu meno atroce - ma la Morte totale, cosciente,
del lottatore che cade, dopo aver trionfato, col cuore spezzato e il sangue che
si stravasa nel trauma di uno sforzo superiore al possibile. Ed ho sudato
sangue. Ho sudato sangue per essere fedele alla volontà di Dio. Ecco perché
l'angelo del mio dolore mi ha prospettato la speranza di tutti i salvati per il
mio sacrificio come medicina al mio morire. I vostri nomi! Ognuno m'è stato una
stilla di farmaco infuso nelle vene per ridare loro tono e funzione, ognuno m'è
stato vita che torna, luce che torna, forza che torna. Nelle inumane torture,
per non urlare il mio dolore di Uomo, e per non disperare di Dio e dire che
Egli era troppo severo e ingiusto verso la sua Vittima, Io mi sono ripetuto i
vostri nomi. Io vi ho visti. Io vi ho benedetti da allora. Da allora vi ho
portati nel cuore. E quando è per voi venuta la vostra ora di essere sulla
Terra, Io mi sono proteso dai Cieli ad accompagnare la vostra venuta, giubilando
al pensiero che un nuovo fiore di amore era nato nel mondo e che avrebbe
vissuto per Me. Oh! miei benedetti! Conforto del Cristo morente! La Madre, il
Discepolo, le Donne pietose erano intorno al mio morire, ma voi pure c'eravate.
I miei occhi morenti vedevano, insieme al volto straziato della Mamma mia, i
vostri visi amorosi, e si sono chiusi così, beati di chiudersi perché vi
avevano salvati, o voi che meritate il Sacrificio di un Dio».
16 febbraio 1944.
Dice Gesù: «Hai conosciuto ormai tutti i dolori che hanno
preceduto la Passione propriamente detta. Ora ti farò conoscere i dolori della
Passione in atto. Quei dolori che più colpiscono la vostra mente quando li
meditate. Ma li meditate molto poco. Troppo poco. Non riflettete a quanto mi
siete costati e di quale tortura è fatta la vostra salvezza. Voi che vi
lamentate di una scorticatura, di un urto contro uno spigolo, di un male di
capo, non pensate che Io ero tutto una piaga, che quelle piaghe erano
invelenite da molte cose, che le cose stesse servivano a tormento del loro
Creatore, perché torturavano il già torturato Dio-Figlio senza rispetto a Colui
che, Padre del creato, le aveva formate. Ma le cose non erano colpevoli. Era
ancora e sempre l'uomo il colpevole. Il colpevole dal giorno che ascoltò Satana
nel Paradiso terrestre. Non spine, non tossico, non ferocia avevano sino a quel
momento le cose del creato per l'uomo creatura eletta. Dio lo aveva fatto re,
questo uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, e nel suo paterno amore non
aveva voluto che le cose potessero essere insidiose all'uomo. Satana mise
l'insidia. Nel cuore dell'uomo per prima. Poi essa partorì all'uomo, colla
punizione del peccato, triboli e spine. Ed ecco che Io, l'Uomo, ho dovuto
soffrire anche per le cose e dalle cose, oltre che dalle persone. Queste mi
dettero insulti e sevizie; quelle ne furono arma. La mano che Dio aveva fatto
all'uomo per distinguerlo dai bruti, la mano che Dio aveva insegnato all'uomo
ad usare, la mano che Dio aveva messo in rapporto con la mente rendendola esecutrice
dei comandi della mente, questa parte di voi così perfetta e che avrebbe dovuto
aver solo carezze per il Figlio di Dio, dal quale aveva avuto solo carezze e
guarigione se era malata, si rivoltò contro il Figlio di Dio e lo colpì di
guanciate, di pugni, si armò di flagelli, si fece tenaglia per strappare
capelli e barba, e maglio per conficcare i chiodi. I piedi dell'uomo, che
avrebbero dovuto unicamente correre solerti ad adorare il Figlio di Dio, furono
veloci per venire a catturarmi, a sospingermi e trascinarmi per le vie dai miei
carnefici, e per colpirmi di calci come non è lecito fare con un mulo restio.
La bocca dell'uomo, che avrebbe dovuto usare della parola, la parola che è dote
data unicamente all'uomo su tutti gli animali creati, per lodare e benedire il
Figlio di Dio, si empi di bestemmie e menzogne e gettò queste, insieme con la
sua bava, contro la mia persona. La mente dell'uomo, quella che è la prova
della sua origine celeste, stancò se stessa per escogitare tormenti di un
raffinato rigore. L'uomo, tutto l'uomo usò di se stesso, nelle sue singole
parti, per torturare il Figlio di Dio. E chiamò la terra, con le sue forme, ad
aiuto nel torturare. Fece, delle pietre dei torrenti, proiettili per ferirmi;
dei rami delle piante, randelli per percuotermi; della ritorta canapa, laccio
per trascinarmi, segandomi le carni; delle spine, una corona di pungente fuoco
al mio capo stanco; dei minerali, un esasperato flagello; della canna, uno
strumento di tortura; delle pietre delle vie, un'insidia al piede vacillante di
Colui che saliva, morendo, per morire crocifisso. E alle cose della terra si
unirono le cose del cielo. Il freddo dell'alba al mio corpo già esausto
dell'agonia dell'orto, il vento che esaspera le ferite, il sole che aumenta
arsione e febbre e porta mosche e polvere, che abbacina gli occhi stanchi a cui
le mani prigioniere non possono far riparo. E alle cose del cielo si uniscono
le fibre concesse all'uomo per rivestire la sua nudità: nel cuoio che diviene
flagello, nella lana della veste che si attacca alle aperte piaghe dei flagelli
e dà tortura di confricamento e di lacerazione ad ogni mossa. Tutto, tutto,
tutto ha servito per tormentare il Figlio di Dio. Egli, per cui tutte le cose
sono state create, nell'ora in cui era l'Ostia offerta a Dio ebbe tutte le cose
nemiche. Non ha avuto sollievo, Maria, il tuo Gesù da nessuna cosa. Come vipere
inferocite, tutto quanto è si volse a mordermi le carni e ad accrescere il
patire. Questo occorrerebbe pensare quando soffrite e, paragonando le vostre
imperfezioni alla mia perfezione e il mio dolore al vostro, riconoscere che il
Padre ama voi come non amò Me in quell'ora, ed amarlo perciò con tutti voi
stessi, come Io l'ho amato nonostante il suo rigore»
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